PISA «Allora, avete capito bene? Reclinate la testa
sulle nostre spalle, portate avanti il bacino, incrociate le braccia sul
petto, piegate una gamba all’indietro a 90 gradi e poi saltate!».
Saltare giù? Ma chi ce l’ha fatto fare. Sembra facile, a sentire Andrea e
Vincenzo, «piloti» istruttori della Folgore che ci accompagnano al
portellone dell’elicottero affacciato su quattromila metri di nulla
assoluto. Sono appiccicati a noi, e fra qualche istante ci
accompagneranno nel salto in tandem da un’altezza folle e poco
consigliabile a chi soffre d’acrofobia: 4.300 metri sono tanti, tanti
davvero, credeteci. Lì sotto, lontanissimi e sbiaditi come in un vecchio
film rovinato dall’uso, s’intravedono campi rettangolari, strade,
automobili. In lontananza il mare della Toscana, intorno solo aria
fresca e qualche nuvola. Tra noi e lo schianto sul terreno a 200 all’ora
- pensiamo - ci sono solo i due angeli custodi della Folgore e i
paracadute piegati nel sacco color bianco sporco che indossano. Ci
siamo. C’è l’ok al lancio. Assicurati l’uno all’altro a quattro ganci
metallici delle due imbracature, ci avviciniamo, camminando come due
geishe giapponesi, un passetto dopo l’altro. «Vai!», grida il pilota.
Una «testata» all’aria e piombiamo insieme nell’abisso senza fine.
Precipitiamo come sassi verso il basso, in caduta libera. Voliamo.
MARCIA NOTTURNA La nostra «giornata» con la Brigata
Folgore, fiore all’occhiello dell’Esercito, comincia la sera precedente.
È mezzanotte. La caserma è avvolta nel silenzio. La ragazza sale le
scale trafelata, passo lesto. È in mimetica, sulle spalle ha uno zaino
da 25 chili ed è reduce da una marcia notturna di dieci chilometri. «È
molto pesante?» le chiediamo. La replica è lapidaria, il tono risoluto,
deciso, secco come una fucilata: «Abbastanza», risponde senza
lamentarsi. L’aspirante «parà» è un’allieva del Centro addestramento dei
paracadutisti della Folgore nella storica caserma di Pisa, dove le
regole - antiche e reiterate - sono dedizione, coraggio, sacrificio. Un
percorso duro, lo stesso per uomini e donne, difficile da concludere e
che vede, infatti, quasi tre aspiranti paracadutisti su dieci mollare
prima della fine. «Meglio così, per loro e per chi resta», osserva il
comandante del Capar, colonnello Aldo Mezzalana, facendo intendere che
sul campo di battaglia - quello vero dove la Folgore combatte in teatri
di guerra lontani e durissimi - chi non ce la fa mette a rischio la vita
dei suoi compagni. La raccomandazione per entrare, giurateci, qui non
funziona.
L’ADUNATA La mattina s’apre con l’alzabandiera,
dopodiché il programma ci riserva il lancio dalla «torre
dell’ardimento», poi dall’elicottero, quindi un’operazione con tecniche
d’addestramento e scontri a fuoco messi in atto in Afghanistan.
L’esperienza è da brividi, l’adrenalina scorre a fiumi, la paura è un
fardello inutile perché qui, a forza di strappi da crepacuore, tutto
funziona con la precisione di un cronometro svizzero. La Folgore è il
cuore palpitante dell’esercito. Entrando nei loro segreti diventa anche
cervello, professionalità, sprezzo del pericolo, spirito di squadra.
Merito e meritocrazia questi ragazzi sembrano possederli dalla nascita.
L’obiettivo, insistono a scanso di equivoci e sballati stereotipi
mediatici, non è uccidere. È proteggere il gruppo, l’uomo che ti sta
accanto, la bandiera che rappresenti e che onori con l’esempio.
LA TORRE La torre d’addestramento è infinita per un
novizio: diciotto metri. «Non guardate di sotto», ci consigliano.
Veniamo imbracati, scaliamo i gradoni, ci affacciamo giù. Non è un bel
vedere, no davvero. «Allora, un piede avanti, l’altro indietro e, al mio
comando, salta», spiega l’istruttore. E aggiunge: «Appena ti butti,
piega verso il basso il collo, sennò la cinghia ti graffia». Il lancio,
infatti, è frontale, lo scivolo lungo i cavi d’acciaio è a destra, come
se ci gettassero da un aereo. Le raccomandazioni servono, ma sono
inutili. Siamo troppo concentrati a non vedere cosa abbiamo sotto di
noi. «Via!» urla l’istruttore. E noi andiamo, incrociando le dita,
pregando tutti i santi nella speranza che tutto finisca bene e presto.
Giunti a fine corsa veniamo recuperati. Un’emozione pazzesca, senza
precedenti, inimmaginabile.
VOLARE Questo è nulla. Il vero lancio deve ancora
arrivare. «Salteremo da 4000 metri», ci annunciano durante il breafing
in un minuscolo aeroclub popolato da parà con migliaia di voli e di
missioni impossibili oltre linee nemiche che ti sparano addosso.
Indossiamo tutte blu. L’elicottero ci ospita e, salito su come un
ascensore impazzito, torna alla base dopo aver scaraventato tutti di
sotto. Volare con la Folgore dà una goduria infinita. La paura passa
presto, delle ripetizioni a terra ricordiamo poco e ci facciamo condurre
con l’aria che sferza il volto, le orecchie che quasi scoppiano. Siamo
in caduta libera e schizziamo come proiettili a 200-220 km fino a
quando, a 1500 metri dal suolo, apriamo l’«ombrello» e dolcemente, tra
virate e controvirate, ci facciamo coccolare, sospesi nel cielo,
impegnati (gli istruttori) a sfruttare correnti d’aria e traiettorie.
Infine, planiamo, lentamente, delicatamente. Solleviamo le gambe,
l’impatto con l’erba del campo di lancio è morbido, indolore.
Emozionante e divertente. Ecco, ora pensate a questi ragazzi che di
notte, con il nemico annidato sui monti dell’Afghanistan o in qualche
palazzo di una città in guerra, schivano razzi e mitragliate che
illuminano il buio.
L’AGGUATO La giornata, però, non è conclusa. Ci
trasferiamo nel centro di Valle Uggione, ribattezzato per l’occasione
«Uggionestad», villaggio che per il durissimo addestramento odierno
sorge nei boschi del «Toscanistan». Ci attende una missione sui «Lince»
con i ragazzi della 5° compagnia «Pipistrelli». Il loro motto è
«Silenziosi e aggressivi». L’obiettivo del training è contattare un
asserito capo villaggio e stabilire buoni rapporti con la comunità del
luogo. Indossiamo giubbotti antiproiettile ed elmetti. Saliamo sugli
stessi blindati che per anni hanno combattuto a Nassiriya o difeso
popolazioni inermi in Kosovo. Dentro, la massima è 26 gradi, non osiamo
pensare come deve essere ad Herat, dove di gradi ce ne sono 40. Quel che
segue è un viaggio all’inferno, con agguati veri nel bosco, bombe
camuffate sotto gli arbusti a bordo strada, raffiche di mitra, lanci di
granate. Le esplosioni sono fortissime, sembra tutto maledettamente
vero. Si fa sul serio. Le autoblindo che sgommano e scappano, le urla
nella radio quando dagli alberi partono raffiche di kalashnikov.
«Attivazione, attivazione!», impreca il comandante di squadra. Il
mitragliere sulla torretta del blindato risponde con la «minimi» calibro
5.56m che in pochi secondi sputa 200 colpi (a salve, in questo caso).
Bossoli veri, caldissimi, cadono nell’abitacolo. Sparano tutti, un
delirio. Da brivido solo a pensare di esserci davvero in situazioni
così. Distesi nella polvere rimangono tre (finti) terroristi, nel Lince
un soldato ferito che urla come urlano i militari che si ritrovano gambe
spappolate, braccia amputate, giubbotti antiproiettile traforati da
esplosivi. Il quinto mezzo della colonna - sott’addestramento - è
oggetto di un attentato simulato con uno Ied (Improvised Explosive
Device), che tante vittime ha procurato anche all’Italia all’inizio dei
conflitti in medio oriente. Qui parte l’operazione di bonifica per
scongiurare altre bombe-esca (FOTO 4-5) . Questi ragazzi si muovono come
fossero telecomandati, ognuno sa il fatto suo, e nessuno resta
indietro.
Ecco. Questa è la Folgore. Noi l’abbiamo vissuta come in un videogame,
provando di tutto. Molti dei ragazzi che ci hanno accompagnato in
quest’avventura pazzesca, in Afghanistan ci sono stati davvero, hanno
schivato la morte, soccorso i compagni, salutato feretri imbandierati
dal tricolore. Altri partiranno presto. Chi parla male della Folgore non
sa di cosa parla.
Fonte: http://www.iltempo.it/
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