Premessa
Sono
trascorsi oltre due anni, ma la vicenda dei due fucilieri di marina trattenuti
in India non si è ancora conclusa. Giova ricordarne gli snodi principali.
L’incidente della Enrica Lexie si è verificato il 15 febbraio 2012 quando, a
detta delle autorità indiane, dalla nave italiana sono partiti dei colpi di
arma da fuoco contro il St Anthony, battello da pesca indiano, e due pescatori
che si trovavano a bordo sono rimasti uccisi. L’incidente è avvenuto al largo
della costa del Kerala, in acque internazionali, ma nella
zona contigua indiana.
I
nostri due fucilieri di marina, che si trovavano a bordo della nave italiana in
funzione antipirateria insieme ad un team di quattro persone, sono stati
accusati di omicidio. La vicenda si è dipanata sul piano giudiziario, salvo
sporadici tentavi di portare la vicenda nei fori internazionali per ottenere il
sostegno degli alleati e fare pressioni politiche nei confronti dell’India.
Peraltro, una delle argomentazioni avanzate dall’Italia nei procedimenti giudiziari
è consistita nell’affermare che i tribunali indiani erano carenti di
giurisdizione, poiché i due marò godevano di immunità funzionale ed i fatti si
erano verificati in acque internazionali.
Le
pronunce dei tribunali indiani che si sono susseguite, ma che non hanno posto
fine alla vicenda, sono le seguenti (vengono qui omesse le decisioni relative
al rilascio della Enrica Lexie, in seguito ai ricorsi presentati
dall’armatore):
29 maggio 2012 - l’Alta Corte del
Kerala rigetta il ricorso italiano volto a contestare la giurisdizione indiana;
30 maggio 2012 - l’Alta
Corte del Kerala dispone la scarcerazione dei due marò, assoggettandoli però
all’obbligo di firma giornaliero;
18 gennaio 2013 - la Corte Suprema
indiana stabilisce che lo Stato del Kerala e i suoi tribunali non sono
competenti, essendo l’incidente accaduto fuori della giurisdizione dello Stato
membro dell’Unione Indiana.
Le
indagini ripartivano in tal modo da zero, e per la loro conduzione veniva
investita la National Investigation Agency (NIA), polizia antiterrorismo
competente in base al SUA Act (cioè
la legge che dispone l’incorporazione nell’ordinamento indiano della
Convenzione del 1988 sulla sicurezza marittima). Il SUA Act prevede la pena di morte per il reato di omicidio.
Dopo aver escluso l’applicazione della
legge antiterrorismo al caso dei due fucilieri di marina, la Corte suprema indiana
ammetteva il 28 marzo 2014 il ricorso italiano volto ad impedire che la
polizia dell’antiterrorismo proseguisse le indagini e formulasse i capi di
accusa. La Corte
suprema si riservava però di udire le controparti, posticipando la nuova
udienza di quattro settimane, con il rischio che il periodo festivo – legato
allo svolgimento delle elezioni legislative nazionali ed alla sospensione feriale
delle attività dei tribunali – prolungasse di nuovo una decisione sulla
vicenda.
In
effetti la nuova udienza veniva rinviata al 31 luglio 2014.
L’apertura di una nuova fase
Il
24 aprile 2014, al Senato, nel corso
delle comunicazioni dei Ministri degli Affari esteri e della Difesa agli Uffici
di presidenza congiunti delle Commissioni Esteri e Difesa, il ministro Federica Mogherini ha dichiarato che
intende imprimere una svolta alla vicenda mutando la strategia finora seguita, portando
la questione a livello internazionale.
Secondo
le parole del Ministro, così come riportate dal sito istituzionale della
Farnesina, “si è aperta una nuova fase
sul caso marò, con l’avvio della procedura internazionale”. Il Ministro ha
precisato che “Il 18 aprile scorso
l’Italia ha inviato una nota verbale alle autorità indiane, la quinta in due
mesi, ricevuta da Delhi il 21 aprile, in cui si riconferma il richiamo
all’immunità funzionale” dei militari e dal ”diritto internazionale”. Il
Ministro ha aggiunto che “dopo due anni c’è ancora una divergenza sulla giurisdizione.
Divergenza che ho potuto constatare anche all’Aja il 25 marzo scorso” (il
riferimento è all’incontro con l’omologo indiano in occasione del Vertice sulla
sicurezza nucleare).
Con
la nota, ha precisato il Ministro, “chiediamo
l’avvio di un ‘exchange of views’ (uno scambio di vedute) sulla disputa e il
ritorno dei marò in Italia. Nel caso in cui non si raggiungesse in tempi
ragionevoli, per questa via, una soluzione accettabile, si ricorrerà a strumenti
internazionali di risoluzione delle dispute in base alle norme internazionali”.
Il
Ministro della Difesa, nel successivo intervento, ha spezzato una lancia a
favore dell’arbitrato obbligatorio ai sensi della Convenzione delle Nazioni
Unite sul diritto del mare. Tra l’altro il ricorso alla “procedura dell’arbitrato internazionale” era stata sollecitata anche
in un ordine del giorno votato all’unanimità alla Camera il 13 marzo 2014, in occasione della
discussione relativa al decreto legge per l’invio delle missioni all’estero.
Una
fase nuova comporta l’individuazione di figure nuove. In particolare il
Ministro si è pronunciato per la costituzione di “un team di esperti, sotto la guida di un coordinatore”. Nello
stesso tempo è stata annunciata la fine della missione di cui era stato
incaricato il coordinatore speciale Staffan de
Mistura, che aveva seguito la
vicenda anche come sottosegretario durante il precedente governo, nonché il
ritorno a New Delhi dell’ambasciatore Daniele
Mancini, che dovrà seguire da vicino la nuova fase.
Gli strumenti della nuova fase
Cosa
comporta questa nuova fase e quali strumenti possono essere attivati?
Lo scambio di note può significare due
cose non necessariamente alternative: una mossa volta a certificare che tra
Italia ed India esiste una controversia internazionale, ovvero un tentativo di
risolvere amichevolmente la questione.
L’esistenza di una controversia
internazionale è un presupposto essenziale per attribuire giurisdizione ad una
corte internazionale. Occorre cioè una pretesa e la contestazione della
stessa. Nel caso concreto l’Italia rivendica l’incompetenza dei tribunali
indiani, mentre l’India afferma il contrario. Né si potrebbe affermare che non
esiste una controversia Italia – India prendendo spunto dal fatto che l’Italia,
contestando la giurisdizione indiana di fronte ai tribunali indiani, si sarebbe
volontariamente sottoposta alla giurisdizione di questo Stato, pregiudicando il
diritto di portare la questione di fronte ad una giurisdizione internazionale.
Beninteso l’Italia avrebbe potuto scegliere l’internazionalizzazione della
vicenda fin da subito, dal momento che non era necessario presentarsi di fronte
ad un tribunale locale per poter esperire successivamente un ricorso
internazionale. La c.d. regola del previo esaurimento dei ricorsi interni,
secondo cui prima di adire un tribunale internazionale occorre esperire i
rimedi offerti dai tribunali locali (in questo caso l’India), non vale infatti nel
caso di specie, poiché si tratta di un danno diretto arrecato allo Stato,
essendo stata negata l’immunità dalla giurisdizione di organi dello Stato
italiano.
Altra
possibile interpretazione della ripetizione degli scambi di note è che, invece
di adire immediatamente il Tribunale internazionale, si voglia seguire una
tattica finalizzata all’adozione di una soluzione
della controversia mediante un negoziato, o che comunque s’intenda
individuare di comune accordo uno strumento per risolvere la controversia, che
non è necessariamente quello disposto nell’Annesso VII alla Convenzione delle
Nazioni Unite sul diritto del mare (di cui si dirà tra breve).
Mezzi per risolvere le controversie
internazionali
Quali
mezzi in concreto possono essere individuati per risolvere la controversia? Il
diritto internazionale non prescrive mezzi preordinati e si rimette alla
volontà delle Parti. L’unico obbligo è quello di risolvere pacificamente la
controversia.
Oltre
al negoziato, si possono individuare i buoni uffici e la mediazione, chiedendo
ad un terzo di adoperarsi per risolvere la controversia: non risulta tuttavia che
tentativi di mediazione siano stati finora sollecitati o comunque ottenuti. Vi
è anche la possibilità di istituire una commissione di conciliazione, sempre
con l’accordo tra le Parti. La decisione
della Commissione di conciliazione non è però obbligatoria e quindi la
conciliazione costituisce uno strumento più flessibile del ricorso
all’arbitrato o ad altra Corte internazionale, poiché il lodo o la sentenza sono
obbligatori per le Parti e in caso di soccombenza occorre adempiere, pena la
violazione di un obbligo internazionale
Il ricorso alla giurisdizione o all’arbitrato
Quanto
ad altri mezzi di soluzione della
controversia, adombrati nel discorso del Ministro, ma non specificamente
individuati, occorre far riferimento alla Corte internazionale di giustizia, al
Tribunale internazionale del diritto del mare, all’arbitrato previsto
dall’Annesso VII alla Convenzione delle Nazioni Unite del diritto del mare del
1982 o ad un arbitrato ad hoc.
Le corti internazionali, a differenza dei
tribunali interni, non hanno una competenza obbligatoria. Per poter
deferire una controversia ad una giurisdizione internazionale occorre la
volontà delle Parti, che può essere consegnata in uno strumento ad hoc
(compromesso), oppure essere preventivamente disposta mediante una clausola
compromissoria.
Qualora
non si riesca a raggiungere un accordo sul contenuto del compromesso, l’Italia potrebbe, nel caso concreto,
attivare la competenza prevista dall’ Annesso VII alla Convenzione del diritto
del mare e mettere in moto la procedura arbitrale. Non avendolo ancora
fatto, è da presumere che si tenti ancora di risolvere la controversia in via
negoziale, oppure che si preferisca deferire la controversia alla Corte
internazionale di giustizia o ad un arbitrato ad hoc, ma per questo è
necessario stipulare un accordo ad hoc con l’India, di cui al momento è
difficile prevedere la concreta fattibilità.
L’Arbitrato secondo l’Annesso VII della
Convenzione del diritto del mare
Quali
le «mosse» per mettere in moto la procedura di cui all’Annesso VII della
Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare? Il Tribunale può essere
unilateralmente investito dalla Parte interessata, che dovrà produrre uno
«statement of the claim and the ground on which it is based” (cioè
l’indicazione della pretesa e i motivi che ne costituiscono il fondamento).
Il
Tribunale si compone di cinque membri. Ciascuna delle Parti ha diritto a
designare un membro, gli altri tre sono nominati di comune accordo. In caso di
disaccordo è previsto l’intervento del Presidente del Tribunale internazionale
del diritto del mare. Tutta la procedura ha tempi prestabiliti, allo scopo di
accelerare l’istituzione del Tribunale.
L’Annesso
alla Convenzione contiene anche regole per la procedura da seguire (che tra
l’altro potrebbero essere scelte dalle Parti), nonché disposizioni in materia
di contumacia, volte ad impedire che la non apparizione del convenuto sia
d’ostacolo alla prosecuzione dell’azione giudiziaria.
La
sentenza è in unico grado, ma le Parti possono prevedere l’appello. E’ tuttavia
previsto un giudizio sull’interpretazione o sulle modalità di esecuzione della
sentenza. D’interesse è che, in attesa della costituzione del perfezionamento
della procedura, il Tribunale
internazionale del diritto del mare possa stabilire misure provvisorie,
qualora ritenga prima facie competente
il Tribunale arbitrale (art. 290 , par. 5 della Convenzione del diritto del
mare).
E’
da domandarsi se, come misura
provvisoria, l’Italia possa chiedere ed ottenere il rinvio in Italia dei due
marò. Il precedente del tentativo di non restituire all’India i due marò
dopo la licenza elettorale potrebbe pesare in senso sfavorevole. Tuttavia il
fatto che la misura provvisoria verrebbe presa con ordinanza del Tribunale
potrebbe essere una garanzia circa il suo rispetto. Inoltre, il mancato
ottemperamento costituirebbe un grave pregiudizio per le ragioni dell’Italia.
Sarebbe
da ritenere invece impercorribile e non soddisfacente la possibilità, che pure
è stata evocata, di consentire ai due marò di attendere in un terzo Stato la
fine della procedura. Gli ostacoli sono molteplici e i precedenti invocati non congrui,
poiché riguardavano persone condannate che tra l’altro dovevano scontare la
pena in un possedimento coloniale della madrepatria (caso Francia - Nuova
Zelanda relativo a Greenpeace International). Per quanto riguarda l’India
esiste, come abbiamo più volte indicato, un
trattato bilaterale con il nostro Paese sul trasferimento delle persone condannate,
ovviamente inapplicabile prima di una sentenza di condanna.
La casistica
L’eventuale
ricorso unilaterale per attivare il Tribunale di cui all’Annesso VII non può
prescindere da un esame della prassi e dei precedenti allo scopo di valutare la
congruità dell’azione. I casi sono riportati sul sito web della Corte
permanente di arbitrato, che agisce come ufficio di cancelleria del Tribunale
arbitrale.
Essi
sono i seguenti:
Barbados
c. Trinidad e Tobago, iniziato nel 2004 e concluso nel 2006.
Guyana
c. Suriname, iniziato nel 2004 e concluso nel 2007.
Malaysia
c. Singapore iniziato il 1° settembre 2003 e terminato con un settlement
agreement nel 2005.
Paesi
bassi c. Regno Unito (MoxPlant case), iniziato nel 2001 e terminato nel 2008.
Bangladesh
c. India (frontiera marittima nel golfo del Bengala) iniziato nel 2009 ed ancora
in corso.
Mauritius
c. Regno Unito (Chagos Arcipelago), iniziato il 22 dicembre 2010 e tuttora in
corso.
Argentina
c. Ghana iniziato nel 2012 e terminato con un accordo tra le parti nel
settembre 2013.
Filippine
c. Cina, iniziato il 22 gennaio 2013 e tuttora in corso.
Danimarca
c. Unione europea (controversia di pesca) iniziato nel 2013 ed ancora in corso.
Olanda
c. Federazione russa, relativo alla cattura dell’Arctic Sunrise nella Zona
economica esclusiva russa dell’Artico, iniziato nel 2013.
Occorre
in particolare esaminare, qualora s’intenda avviare il ricorso unilaterale, i
casi in cui lo Stato contro cui il ricorso è stato presentato ha contestato la
competenza del Tribunale, ha ricusato uno dei giudici (poiché avrebbe a lungo
operato come consulente del governo avversario) e soprattutto i casi in cui è
stata accolta la richiesta di misura provvisoria.
Ad
es. nella controversia Argentina c. Ghana il Tribunale internazionale per il
diritto del mare, competente ad adottare misure provvisorie, ha ordinato il
rilascio della nave - scuola della marina argentina, ARA Libertad, che era
stata posta sotto sequestro dai creditori dell‘Argentina. La misura provvisoria
ha consentito la successiva chiusura della controversia in via negoziale. Anche
nel caso dell’Arctic Sunrise, il Tribunale del diritto del mare, con ordinanza
del 22 novembre 2013, ha
ordinato il rilascio della nave e degli attivisti di Greenpeace che si
trovavano a bordo.
Altro
elemento da valutare è il fattore tempo. I precedenti dimostrano che per
arrivare al lodo occorrono almeno due - tre anni, a meno che nel frattempo non
si riesca a pervenire ad un accordo che ponga fine alla controversia.
Conclusione
La
riassunzione del procedimento dopo la pausa festiva segna il limite per
prendere una decisione, che difficilmente potrà essere rinviata. Se i marò non
si presentano davanti al giudice corrono il rischio di essere incriminati; se
si presentano finiscono per pregiudicare la via dell’internazionalizzazione e
il disconoscimento della giurisdizione indiana, essendo essi organi dello Stato
italiano. D’altra parte il diritto alla difesa è un diritto fondamentale di cui
non si può privare l’individuo: l’India
è chiaramente in violazione dell’art. 9 del Patto sui diritti civili e politici
delle Nazioni Unite, ma sollevare la questione nei fori appropriati
significa riconoscere implicitamente la giurisdizione indiana, sul presupposto
che ad oltre due anni dall’incidente non si è ancora arrivati alla formulazione
dell’accusa.
Il ricorso alla Corte internazionale di
giustizia presuppone l’accordo delle Parti e quindi dell’India, che finora
si è mostrata riluttante. Eguali considerazioni valgono per l’istituzione di un
tribunale arbitrale ad hoc, che implica la stipulazione di un compromesso.
Non
resterebbe quindi altra via che quella del ricorso
unilaterale al Tribunale previsto dall’Annesso VII della Convenzione del
diritto del mare, ma prima di esperire questa via occorre un’attenta valutazione
dei precedenti summenzionati, anche in considerazione della tempistica,
piuttosto prolungata, connessa a tale procedura.
Particolare
rilievo, a questo fine, assume una disamina dei casi in cui il procedimento arbitrale è andato di pari passo
al negoziato, portando all’adozione di una soluzione negoziale estintiva
della procedura o incorporata nella sentenza medesima.
L’adozione di una misura provvisoria,
che potrebbe essere ottenuta in tempi relativamente brevi, sarebbe imprescindibile, sempre che questa comporti l’invio dei
marò in Italia. Ma sul punto è difficile fare previsioni, quantunque qualche
precedente favorevole esista.
La via del ricorso a i tribunali
internazionali non è pertanto alternativa al negoziato, ma semmai complementare.
In tale prospettiva, occorre esaminare il quadro complessivo degli accordi in
vigore tra i due paesi, anche nell’intento di integrarlo con alcune clausole ad
hoc, ad es. inserendole nell’Accordo sulla cooperazione nel campo militare (in
materia esiste un accordo firmato nel 2003 ed entrato in vigore nel 2008). Un ulteriore
prospettiva si può ravvisare nella stessa giurisprudenza della Corte suprema
indiana che nella decisione del 18 gennaio 2013 ha rimarcato il dovere di cooperazione tra gli Stati nella
lotta alla pirateria, secondo quanto stabilito dall’art. 100 della
Convenzione del diritto del mare.
Sul
piano più squisitamente politico, va ricordato come il nuovo premier indiano Modi
abbia ottenuto una schiacciante vittoria, e questo potrebbe indurlo, come è
stato detto da alcuni analisti, a prendere decisioni pragmatiche per porre
termine ad una vicenda che si trascina ormai da troppo tempo.
Le opinioni riportate in
questa nota sono riferibili esclusivamente all’Istituto autore della ricerca. Coordinamento
redazionale a cura di:
Camera dei deputati
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Di Natalino Ronzitti
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