Oggi abbiamo per voi questo
preziosissimo documento. Intervistare Giulio Terzi non è soltanto il
piacere giornalistico di chiacchierare con l’ex ministro degli Esteri:
ma è soprattutto andare come a lezione, a lezione d’Italia.
In questa intervista parliamo di tutto:
l’Ambasciatore Terzi ci descrive la Bellezza della sua carriera
diplomatica e della sua vita, ci dà le dritte su come condurre una
trattativa e sul futuro del nostro Paese, risponde alle mie domande su
come finì l’avventura da ministro del governo Monti: cioè con quelle sue
dimissioni, dopo il ritorno in India dei due Marò, che sono ancora là,
Massimiliano e Salvatore.
Ambasciatore, quando e perché Lei ha iniziato la carriera diplomatica?
- Le relazioni internazionali mi hanno affascinato sin dai tempi del
Liceo: nei primi anni sessanta, il mondo studentesco era ideologicamente
e politicamente diviso sulle linee di frattura tra Est e Ovest, i
valori atlantici contrapposti a quelli del “socialismo in un solo
paese”, e si discuteva molto di tutti i problemi legati alla
decolonizzazione di Africa ed Asia. A Giurisprudenza pensavo
inizialmente di formarmi come avvocato internazionalista, ma una borsa
di studio della Farnesina mi stimolo nel partecipare al Concorso
Diplomatico. E’ stato l’inizio di una storia professionale durante la
quale ho avuto il privilegio di lavorare con personalità di spicco della
nostra Diplomazia, come Corrado Orlandi Contucci, Franco Malfatti,
Paolo Fulci, Umberto Vattani.
Ma fu uno zio, al quale mia madre era
molto legata, a darmi un esempio prezioso: Renato Bova Scoppa, un
diplomatico di sconfinati interessi e curiosità culturali, di una
passione unica per la Carriera, e di una fedeltà assoluta al Paese, che
aveva servito, ancor prima di entrare in diplomazia, da valoroso
ufficiale durante la I guerra mondiale. Come Capo Missione si era
trovato al centro di vicende estremamente difficili: a Ginevra, negli
anni dei Fascismo, dopo le sanzioni comminate all’Italia dalla Società
delle Nazioni per la vicenda etiopica; a Bucarest, quando era riuscito a
convincere Mihai Antonescu a premere su Mussolini per concordare una
pace separata dalla Germania; alle Nazioni Unite, quando aveva lavorato
per l’ingresso dell’Italia nell’ONU dopo aver ottenuto il necessario e
assai problematico assenso Russo. Renato pensava, parlava, scriveva con
un’eleganza dialettica tutta sua, e con apertura nei confronti di
interlocutori da lui anche assai distanti politicamente come i leaders
della prima Russia bolscevica, con i quali era stato in stretti
rapporti. Rileggere oggi suoi libri come “Russia Rossa”, “Dialogo con
due dittatori”, “la Pace impossibile”, o alcuni dei suoi numerosissimi
saggi, dà la misura della qualità di una tradizione diplomatica che ha
tenuto alto il ruolo e il prestigio del nostro Paese anche negli anni
più dolorosi della nostra storia.
In
qualche momento, ha avuto la sensazione di “poter cambiare il mondo”?
C’è qualche decisione che ha preso da Ambasciatore o da Ministro che a
suo avviso ha inciso più di altre nella vita della Nazione…?
- Viviamo in un mondo di quasi di nove miliardi di persone, in cui 193
Stati membri dell’ONU devono affrontare le “sfide planetarie” del clima,
della carenza di risorse naturali, di un modello di crescita non più
sostenibile, dei conflitti settari. La necessità di cambiare il pianeta
per garantire la sopravvivenza di un ecosistema fragile e compromesso, e
l’urgenza di trasformare i conflitti in pace duratura e generalizzata,
dovrebbero essere una priorità per tutti. Purtroppo non è così, perché
gruppi di pressione, interessi settoriali e potentati politici dettano
l’agenda a Governi e Parlamenti, i quali ben difficilmente si impegnano
per raggiungere obiettivi di lungo periodo in grado di avere ricadute
positive anche al di fuori dei propri confini. Ma la cultura e il
particolare posizionamento geopolitico dell’Italia rendono possibile
coniugare i legittimi interessi del nostro Paese con un intervento per
tentare di risolvere i fattori di crisi che ho menzionato. Per quanto
riguarda la mia azione di governo, da uomo dello Stato non ho mai avuto
la percezione di poter “cambiare il mondo”, quanto piuttosto di essere
parte di un team – quello della Pubblica Amministrazione – costantemente
impegnato a “fare bene” e a “esportare” i valori “alti” del nostro
Paese.
Vorrei menzionare a tal proposito la
lunga battaglia italiana alle Nazioni Unite per la riforma del Consiglio
di Sicurezza, impostata e guidata con successo dall’Ambasciatore Paolo
Fulci per tutti gli anni 90 e che ho avuto il piacere di proseguire da
Ambasciatore all’Onu e poi da Ministro; l’attenzione alla promozione dei
diritti umani e alla libertà religiosa e di pensiero; la lotta contro
le mutilazioni genitali femminili e contro la pena di morte. Anche il
delicato presidio operato a favore delle nostre aziende nella “realtà
liquida” del post Primavere Arabe ha avuto il suo peso, come pure
l’imponente organizzazione dell’Anno della Cultura Italiana in USA, con
oltre 180 eventi per promuovere il made in Italy, nella scia delle
celebrazioni altrettanto riuscite per il 150° dell’Unità d’Italia,
organizzate in molti paesi del mondo grazie al lavoro instancabile delle
nostre Ambasciate. Sul tema della sicurezza, il Vertice Nato di Chicago
sull’Afghanistan e il contributo alla risoluzione della crisi di Gaza
nel 2012, purtroppo riesplosa drammaticamente in queste settimane. E
anche la protezione lo stimolo allo sviluppo della cultura e della
lingua italiana nel mondo, perché i nostri connazionali all’estero sono
una delle più grandi risorse vincenti per il nostro Paese, purtroppo
troppo spesso trascurati dalle nostre Istituzioni.
Ci
svela qualche “trucco del mestiere” nella gestione di delicate
negoziazioni internazionali? Quali sono le cose da fare, e quelle da
“non fare mai”…?
- Sono rimasto sorpreso, in un recente dibattito sulle “tecniche del
negoziato”, nel constatare quanto siano ancora attuali cinque principi
elaborati negli anni ottanta dall’”Harvard Negotiation Project”, un
gruppo di lavoro che aveva influito sulla formazione di molti giovani
diplomatici dell’epoca, oltre che di politici, manager e studiosi della
società:
A. Negozia sulla base di principi, non di posizioni.
B. Distingui e separa le persone dal problema, senza consentire
all’emotività di interferire con una valutazione obiettiva, mantenendo
la tua indipendenza di giudizio.
C. Focalizza gli interessi che sei chiamato a sostenere.
D. Elabora opzioni che consentano a tutte le parti di guadagnare dal negoziato.
E. Insisti sull’utilizzo di criteri obiettivi.
Tutto ciò presuppone che ogni
trattativa, dalle più importanti conferenze internazionali al più
elementare incontro di lavoro con un diplomatico straniero, sia
preparato da “compiti fatti a casa”. L’improvvisazione, l’assenza di
vero coordinamento, la superficialità, i personalismi e gli interessi
privati sono mali diffusi nelle nostre Amministrazioni e nella classe
politica. Si deve invece essere “ossessivamente” attenti alla formazione
di team negoziali i cui componenti siano unicamente mossi
dall’interesse dello Stato, dove sia chiara e collaudata la definizione
dei ruoli, la comprensione degli scenari della trattativa,
l’individuazione degli “end games”. Si deve anche guardare bene alle
modalità di attuazione degli accordi una volta che essi sono conclusi,
perchè il negoziato non finisce quando ci si alza dal tavolo per un
bello “show” con i media. Gli archivi sono colmi di accordi, intese e
mediazioni che non hanno mai avuto il benchè minimo effetto pratico.
Tempo e denaro persi, se non per l’irrilevante vanità di chi se ne è
fatto promotore. Da questo si evince il “cosa non fare mai”:
improvvisare, parlare fuori contesto, avanzare proposte non coordinate
con il proprio team, tenere per sé elementi e informazioni che
andrebbero condivisi con gli altri…questi sono tutti ingredienti sicuri
per mancare il bersaglio, creare confusione, rendersi poco credibili. Mi
è capitato di assistere a protagonismi estemporanei di nostri delegati
che si lanciavano – dinnanzi a espressioni visibilmente imbarazzate di
chi ci stava di fronte – in disegni epocali di nuove alleanze
transcontinentali non proponibili neppure al più fantasioso dei Think
Tank, figuriamoci a un tavolo intergovernativo. Per anni abbiamo cercato
di radicare una mentalità e una cultura del “lavoro di team”
nell’Amministrazione dello Stato: ci sono stati progressi, ma ancora
lontani dall’essere sufficienti.
E’
molto affascinante immaginare una vita come la Sua, sempre in viaggio
per dossier di così alto profilo. Ci racconta qualche aneddoto che l’ha
segnata o che ricorda particolarmente, durante i suoi viaggi o i suoi
soggiorni nelle missioni all’estero?
- Ironia e humour da sempre sono stati un po’ la linfa dei
rapporti personali che “fanno” la diplomazia: aiutano a sdrammatizzare
momenti di tensione e a ridimensionare atteggiamenti da “master of the
universe” che si vedono sulla scena internazionale. Lo raccontano veri
capolavori letterari, in forma anche caustica, come l’insuperabile “Les
Ambassades” di Roger Peyrefitte. Gli aneddoti sono infiniti. Vanno
dall’uso quanto meno improprio di lingue straniere che ancora oggi
personalità politiche fanno volendo dimostrare di poter rinunciare
all’interprete, al discorso in Consiglio di Sicurezza dell’ONU letto dal
Ministro degli Esteri di un grande paese asiatico seguendo il testo che
si era trovato sul tavolo… ma che apparteneva al collega mediorientale
che aveva parlato appena prima di lui, ai discorsi privi di una o più
pagine, evidentemente “mangiate” dalla stampante senza che nessuno
ricontrollasse, in occasioni ufficiali ai più alti livelli… Quanto
considero prezioso il consiglio datomi da una grande personalità
politica americana, Mario Cuomo, ex Governatore dello Stato di New York,
all’inizio della mia missione come Ambasciatore a Washington: “scrivi e
cura sempre personalmente i tuoi discorsi”.
Il “villaggio globale” del Palazzo di
Vetro, moltiplicatore infinito di contatti, è anche fonte inesauribile
di situazioni da “comic relief” shakespeariano. Nella grande sala
colloqui, la Indonesian Lounge, si incontrano i delegati per discutere
le questioni più diverse e delicate. Accade così che un Diplomatico
europeo appena trasferito all’ONU voglia incontrare, senza ancora
conoscerlo, un collega Azero per parlargli del problema del Nagorno
Karabakh, e ne parli invece con il collega Armeno,
che pure non ha mai visto prima e che sulla questione ha sensibilità
esattamente opposte… O Capita – sempre per citare fatti realmente
accaduti – che un funzionario sia chiamato urgentemente dal suo Capo
Missione, vada in una cabina telefonica perchè ha il cellulare scarico, e
vada in affanno non riuscendo più a uscire dalla cabina perché spinge
disperatamente la porta a soffietto nella direzione contraria, “salvato”
poi nientemeno che dal Ministro degli Esteri di un paese amico che
passava lì davanti… Un altro buffo aneddoto riguarda le visite di Stato,
quando i “logisti” imponevano ai partecipanti di predisporre i bagagli
la sera prima della partenza per consentire l’ordinato e protocollare
arrivo in aeroporto della delegazione al seguito. Ci fu il caso
veramente unico di un collega che mi telefonò imbarazzato, di primissima
mattina, appena resosi conto di aver messo nella valigia – ormai
imbarcata – anche il pantalone del protocollare abito blu: non aveva
altri capi, gli erano rimasti solo giacca, camicia e cravatta… e solo un
colpo di fortuna volle che si trovasse un pantalone di colore diverso
ma almeno della stessa taglia!
Ma
è vero che fuori ci vedono così male…? O siamo noi a lamentarci forse
troppo, mentre l’Italia fuori dai nostri confini viene invece
apprezzata…?
- C’è una grandissima voglia di Italia nel mondo. Dovunque mi sia
capitato di recarmi, da Diplomatico, da Ministro, o da conferenziere o
partecipante a iniziative di organizzazioni internazionali di cui faccio
parte, questa constatazione si riaffaccia sempre con grande nettezza.
C’è un’”altra Italia” che lavora, fa impresa, opera nelle Università,
nella ricerca, nella scienza, che ogni giorno si afferma negli angoli
più remoti del pianeta con connazionali di successo nella politica,
nell’economia e nella cultura, fatta da decine di milioni di americani,
argentini, brasiliani, canadesi, australiani ed europei di origine
italiana che trovano nell’appartenenza identitaria al Paese di origine
la “marcia in più” per contribuire al progresso dei Paesi dove ora
vivono. Tra tutti i riconoscimenti ottenuti dai nostri connazionali,
credo valga in primis quello contenuto nella Proclamation del Presidente
Obama, il 17 marzo 2011: “…Today the legacy of Garibaldi and all those
who unified Italy lives in the millions of American women and men of
Italian descent who strenghten and enrich our Nation. Italy and the
United States are bound by friendship and a common dedication to civil
liberties, democratic principles,and the universal human rights our
countries both respect and uphold…”.
La considerazione che l’Italia ottiene
nel mondo, a mio avviso, nasce anzitutto da individui che si affermano
all’estero facendo leva sulle caratteristiche migliori della società
italiana, sulla sua capacitè di essere creativa, innovativa e
determinata. La Diplomazia ha un ruolo evidentemente fondamentale nella
reputazione del Paese, ma non possono in alcun modo essere disgiunte dal
ruolo dei nostri connazionali all’estero. E’ essenziale potenziare il
“soft power” rappresentato dalla promozione della cultura e della lingua
italiana, anziché umiliarli come sembra voler fare anche questo
Governo, ed essere vicini alle istanze dei connazionali all’estero,
ancorando le “reti” e associazioni di scienziati, di imprenditori, di
uomini e donne di cultura alle Istituzioni del nostro Paese. C’è infine
una ragione estremamente concreta per internazionalizzare i nostri
orizzonti grazie agli italiani e alle imprese italiane all’estero: da
oltre cinque anni siamo in recessione, gli indici negativi toccano PIL,
occupazione, domanda e produzione interna. Gli unici dati positivi
riguardano l’estero, soprattutto i mercati extraeuropei che assorbono la
metà del nostro export. Per tutta la durata della crisi le nostre
imprese hanno continuato ad affermarsi all’estero, persino nei paesi a
più alta instabilità a causa delle primavere Arabe. E’
l’internazionalizzazione la vera locomotiva della nostra crescita, e ne
dobbiamo trarre le dovute conseguenze quando discutiamo di
armonizzazione dei mercati euroatlantici, di partenariati orientali e
mediterranei, e di rapporti con le economie emergenti. Oltre che le
questioni “ideali”, esiste quindi un concreto interesse nazionale nel
farlo.
Ambasciatore,
con tutta la delicatezza del caso, Le chiedo: riaccetterebbe col senno
di poi la proposta di incarico di Ministro degli Esteri…?
- Certamente si, perché l’onore che mi è stato riservato
nell’essere chiamato al Governo per guidare la diplomazia italiana è il
più alto riconoscimento e al tempo stesso la più alta responsabilità per
un Diplomatico di carriera. Sottolineo soprattutto il concetto di
responsabilità, di fronte al Parlamento e al Paese. Nell’Italia
Repubblicana, è avvenuto in due soli casi prima del mio, con Carlo
Sforza nel 1947 e con Renato Ruggiero nel 2001.
Se un indovino mi avesse faustianamente
predetto tutta la storia del mio mandato dal 16 novembre 2011 al 26
marzo 2013, l’avrei sottoscritta in toto, perché sono convinto di aver
dimostrato in prima persona che riuscire a coniugare “valori” e
“interesse nazionale” è non solo possibile, ma è l’unica strada in grado
di dare risultati concreti rafforzando il ruolo dell’Italia nel mondo.
In secondo luogo, penso che le quattro grandi direttrici sulle quali ho
impegnato la diplomazia italiana – europea, atlantica, mediterranea e
globale – definiscano la visione di lungo periodo per la politica estera
del nostro Paese. In terzo luogo, penso che il rafforzamento che ho
inteso assicurare al ruolo dell’Italia come “superpotenza culturale”
appartenga sempre più al DNA della Farnesina, nonostante alcune
incertezze percepite negli ultimi mesi.
Le Sue dimissioni da Ministro: un momento difficile?
- La gestione da parte della Farnesina della “crisi Marò” dal primo
all’ultimo giorno del mio mandato di Governo è stata guidata da due
principi fondamentali: la necessità per un paese come l’Italia che
invoca a livello internazionale l’affermazione dello Stato di Diritto di
non deviare mai dal principio che le controversie tra Stati devono
essere negoziate, giudicate e risolte secondo le norme riconosciute del
Diritto internazionale e non con trucchi, sotterfugi o prepotenze
inaccettabili; in secondo luogo, la certezza che vi sono valori
irrinunciabili di sovranità e di tutela fondamentale dei nostri
connazionali nei confronti di Stati che prevedono la pena di morte, di
rispetto delle nostre Forze Armate, della memoria dei caduti in
operazioni di pace e di dignità di Patria, che devono essere
sempre salvaguardati.
Il mio ruolo e le responsabilità che mi
ero assunto dinanzi al Parlamento e al Paese all’atto dell’incarico mi
imponevano di contrastare in ogni modo la decisione vergognosa di
rimandare Latorre e Girone in India per considerazioni assai mal riposte
di natura affaristica, e mi imponevano anche di denunciare – lasciando
il Governo – l’enorme errore che si era voluto commettere contro ogni
buon senso e nonostante il mio parere contrario. Desidero cogliere anche
questa occasione per esprimere la più vicina solidarietà a Massimiliano
e Salvatore: devono tornare quanto prima possibile, e nessuno deve
neppur lontanamente pensare – e tanto meno accondiscendere, a New Delhi
come anche a Roma
– all’eventualità di un loro processo in India. In definitiva rifarei
con coerenza questa scelta, perché – come dico spesso – per quanto mi
riguarda ci sono valori che non sono negoziabili, tanto meno solo per
mantenere una posizione di potere.
Eccellenza, con tutti gli
impegni internazionali nei quali è tutt’ora coinvolto, quanto tempo le
resta da dedicare alla Sua famiglia? I suoi due bimbi e sua moglie non
“patiscono” le Sue assenze…? Sappiamo che possiede una moto Harley… è
vero? Come mai questa passione?
- La famiglia è sempre stata il mio patrimonio più prezioso e
la vecchia casa a Tresolzio, all’imbocco delle valli bergamasche
costituisce un luogo di riflessione e di vacanza perfetto. Lo è stato
per generazioni prima della mia, lo sta diventando per quella dopo. Ci
passo tutto il tempo che posso, mai abbastanza. Come per tanti altri
bergamaschi, gli svaghi della moto, della bicicletta, dei cavalli, così
come le partite a scacchi o a calciobalilla con gli amici, nascono per
me da quelle parti. E’ vero o no che si resta giovani sin che si è su
una Harley, anche senza arrivare all’estremo di credere, come gli
Harleysti accaniti, che si deve “ride to live, live to ride”…?
Lei – lo sappiamo – ha anche la
passione della politica. Un suo commento sulla situazione politica e
istituzionale del Paese: cosa dobbiamo aspettarci nel prossimo futuro?
- Mi aspetto purtroppo un futuro ancora molto difficile per
l’occupazione, i giovani, le imprese, per la tenuta morale del Paese e
per la formazione di un senso identitario tra le nuove generazioni.
Stiamo attraversando una crisi grave almeno quanto quella del ’29 ma
nessun Governo è ancora riuscito a ridare al paese determinazione e
coesione per rilanciare il “Sistema Italia”. Periodi così differenti per
condizioni politiche, economiche e sociali non possono certo essere
raffrontati tra loro, tuttavia il ben diverso clima di libertà e di
democrazia che respiriamo oggi rispetto alla dittatura fascista non è
purtroppo sufficiente a ristabilire neppure un minimo di fiducia nella
classe politica e nella considerazione – bassissima – che la gente nutre
nei confronti dei “poteri forti”, della finanza e dell’informazione.
Tre disgrazie si sono abbattute sul
nostro paese: una corruzione endemica e diffusa, tanto che – per usare
una metafora – nella foresta non vi sono più alberi senza termiti; una
giustizia civile così lenta da costituire uno dei più gravi handicap per
la crescita e l’investimento produttivo, e non solo per i nostri
cittadini, ma anche per i potenziali investitori esteri; una burocrazia
che pesa sul mondo produttivo e sulla società italiana ancor più di un
apparato fiscale già di per sé opprimente. Non si tratta di impressioni.
Questi sono i tre essenziali motivi per i quali l’Italia è unanimemente
considerata da Organizzazioni ed enti di ricerca internazionali il
fanalino di coda tra i Paesi avanzati. Esserlo, significa non avere in
Europa credibilità sufficiente a spostare a nostro favore gli equilibri
guidati da Berlino. Siamo, con Renzi, al terzo Governo che si
autodefinisce “l’ultima spiaggia”. Ma in tre anni un’attività
legislativa frenetica, tesa a onorare impegni presi da tempo con l’UE su
riforme e finanza pubblica, resta del tutto priva di effetti, perché le
leggi adottate necessitano di un’enorme massa di regolamenti attuativi
in stragrande misura – almeno i due terzi – mai promulgati. Se la nostra
perdita di credibilità a Bruxelles e altrove è stata paurosamente
compromessa dal dilagare della corruzione, che provoca sperperi assurdi
non solo di risorse attinte dai contribuenti italiani, ma anche dei
finanziamenti europei, sarebbe lecito aspettarsi dal Governo un impegno
assoluto, convincente e senza tregua sul fronte della lotta alla
corruzione, delle misure e delle norme che non solo devono reprimerla,
ma che servono a prevenirla. Ebbene, a tutt’oggi non risulta sia così.
Ad esempio in questi giorni il Parlamento sta discutendo la riforma
della Cooperazione italiana allo sviluppo, un terreno che negli anni ’90
è stato oggetto di scandali a ripetizione. Da una decina d’anni, con
grandi sforzi, la Farnesina ha compiuto un’enomiabile opera di
risanamento, rafforzando i controlli, le procedure di contabilità
pubblica, le modalità di gara, azzerando almeno per finanziamenti di
entità più significativa le assegnazioni a licitazione privata. Le
proposte del Governo mirano invece a far approvare una riforma nella
quale tutta la cooperazione allo sviluppo sia sottratta alle norme della
contabilità pubblica e alle relative procedure di controllo. Come se
non bastassero gli esempi del Mose, dell’Expo, delle allegre finanze
regionali a dimostrare cosa accade quando si applicano criteri
privatistici a finanziamenti di miliardi di euro l’anno. La principale
priorità dell’agenda politica per il nostro Paese non può che essere
quella della corretta gestione della cosa pubblica. Non possiamo fare su
questo alcuno sconto al Governo, né lo farà l’Europa.
Ambasciatore Giulio Terzi di
Sant’Agata, ringraziandola per le Sue risposte, Le rivolgo la domanda
con cui chiudo sempre le nostre interviste: se potesse scegliere, qual è
la notizia che domattina vorrebbe trovare sul suo giornale preferito…?
- Vorrei vedere in prima pagina la notizia che Netanahu e Abbas hanno
firmato un “interim agreement” sulla creazione di due Stati, ebraico e
palestinese, riconoscendosi reciprocamente il diritto a vivere entro
confini definiti in condizioni di sicurezza. Gli estremisti perderebbero
la loro ragione di esistere, e i giochi destabilizzanti dell’Iran
sull’intera regione diverrebbero assai più problematici per Teheran. Ma
soprattutto si realizzerebbe il desiderio di molti, negli ultimi
decenni, in quella parte del mondo: la pace, e la voglia di ricominciare
a costruire futuro.
Fonte: http://www.italiapost.info/