Intervista all’inviato di guerra del Tg5, Toni Capuozzo, che ha
ricostruito in un’inchiesta lo svolgimento dei fatti che portarono
all’arresto dei fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore
Girone. Demolendo l’impianto accusatorio a loro carico
Il 1° luglio scorso viene trasmessa da TgCom 24 un’inchiesta che smonta pezzo dopo pezzo le accuse dell’India a carico dei marò Massimiliano Latorre e Salvatore Girone. I due fucilieri delSan Marco da
516 giorni sono trattenuti dalle autorità di Nuova Delhi con l’accusa
di aver ucciso due pescatori indiani durante un’azione antipirateria.
Autore del servizio, il giornalista Toni Capuozzo. Il Punto lo
ha intervistato per farsi raccontare i dettagli di una ricostruzione
che fa tremare dalle fondamenta il castello accusatorio indiano e che
però, nonostante le eclatanti rivelazioni, non ha suscitato alcuna
reazione da parte delle autorità italiane che si occupano del caso.
Capuozzo, che cosa non quadra nell'accusa indiana?
«Il punto principale è la manipolazione degli orari fatta dalla polizia,
dalla magistratura e dalla guardia costiera indiane. È infatti ormai
assodato che l’incidente che vede coinvolta l’Enrica Lexie, la
petroliera italiana a bordo della quale i marò erano imbarcati come
scorta antipirateria, avviene tra le 16 e le 16.30 ora locale.
L’incidente nel quale trovano la morte i due pescatori indiani, invece,
avviene alle 21.30. A dirlo è lo stesso capitano e armatore del
peschereccio, Freddy Bosco, che ripete la sua versione sia agli
inquirenti che alle tv. Tra i due fatti, dunque, ci sono come minimo 5
ore di differenza».
Dunque i nostri marò sono stati letteralmente incastrati. Perché?
«La mia sensazione è che all'inizio ci sia stata una sorta di svista da
parte della Guardia Costiera indiana. Alle 21.30, il proprietario del
peschereccio indiano avvisa via radiotelefono la capitaneria di porto
dell’incidente mortale appena avvenuto. Sul tavolo dei guardacoste
indiano, a quell’ora, c’è già il dossier con la segnalazione della
Enrica Lexie che riferisce di essere stata fatta oggetto di un tentativo
di abbordaggio da parte di una sospetta imbarcazione pirata. Allora la
guardia costiera collega subito le due cose, e chiama in porto la nave
italiana. Alle 22.20, però, c'è una nave greca che dà comunicazione di
un altro incidente, in una zona e in un orario molti vicini a quelli
dell’episodio denunciato dai pescatori. A quel punto, però, con i
“colpevoli” italiani già sul piatto e la nave greca lontana in acque
internazionali, i guardacoste trascurano la seconda segnalazione. E qui
entrano in gioco le considerazioni politiche, con il governatore del
Kerala, esponente del Partito del Congresso, lo stesso di Sonia Gandhi,
accusata di essere filo-italiana. Il governatore, sotto pressione da
parte dell’opposizione nazionalista e comunista, non può fare
concessioni allo “straniero”, e dichiara subito colpevoli i due marò. E
il capo della polizia del Kerala viene promosso poco dopo. Anche se
l’inchiesta fa acqua da tutte le parti: la perizia balistica viene
effettuata da un anatomopatologo, che tra l’altro parla di calibri non
compatibili con i fucili in dotazione al San Marco. L’unica cosa certa, è
che il peschereccio viene immediatamente restituito al proprietario,
lui lo lascia affondare, rendendo impossibile qualsiasi perizia
sull’imbarcazione, e nel frattempo sposta gli orari dei fatti,
adattandoli al teorema degli inquirenti indiani».
Come ha realizzato il servizio?
«Sono partito da due documenti molto importanti. Il primo è il dossier
realizzato da Stefano Tronconi, ex dirigente d'impresa, lontano dalla
politica e dal mondo militare, che si è interessato al caso e ha
ricevuto indicazioni e dati molto interessanti da parte di cittadini
indiani, i quali hanno voluto collaborare in prima persona per fare luce
sulla vicenda. Il secondo è il lavoro svolto da Luigi di Stefano per
quanto riguarda la perizia balistica. La sua è un’inchiesta molto
accurata e altrettanto documentata, anche se sul web numerosi detrattori
hanno tentato di intaccarne la credibilità mettendoci di mezzo la
politica, e accusandolo di essere vicino a CasaPound per screditarlo.
Personalmente non do peso alle opinioni politiche delle persone, perché
credo che la ricerca della verità sia assolutamente apolitica».
C’è stata qualche reazione da parte delle istituzioni alla sua inchiesta?
«No, nessuna. Anzi, ho rilevato semmai un certo imbarazzo da parte
italiana nell’affrontare apertamente questi dettagli. Ciò che mi ha
incuriosito però sono soprattutto i toni bassi adottati dall’Italia. Si è
sempre parlato solo di conflitto di giurisdizione, una tesi giusta di
principio ma difesa molto debolmente in sede ONU ed europea. Una
battaglia giusta, ma ormai persa, visto che in ogni caso sarà l’India a
giudicare i due marò. Invece non è mai stata pronunciata una parola
chiara sulla innocenza. Una vota persa la battaglia, sulla
giurisdizione, si sarebbe dovuto dire a chiare lettere come stanno le
cose. E anche alcune mosse, come il risarcimento di 300mila euro alle
famiglie dei pescatori uccisi, pur mosse da un sentimento di pietà e dal
desiderio di apparire concilianti, sono state inevitabilmente lette
come una chiara ammissione di colpa».
Ritiene plausibile che chi si sta occupando della vicenda fosse
già a conoscenza delle pesanti incongruenze che ha fatto emergere?
«So che ci hanno lavorato oltre 60 persone tra servizi segreti, Marina
Militare e personale del Ministero della Difesa. Mi sembra molto strano
che a tutti siano sfuggiti elementi come questi. Anzi, so che ci sono
addirittura delle fotografie in mano della parte italiana. Aspetto come
tutti il processo per vedere cosa succederà».
Eppure, anche dopo il suo servizio, nulla si è ancora mosso in ambito diplomatico...
«Ripeto, c’è molto imbarazzo nell’affrontare la questione. Evidentemente
entrambe le parti puntavano ad una soluzione di comodo, con una pena
simbolica da scontare in Italia che consentisse ai due marò di tornare a
casa in forza degli accordi diplomatici vigenti tra i due Paesi e
lasciasse l’India soddisfatta. Oggi l’innocenza dei due marò è un tema
che fa saltare il banco. E anche il fatto che siano dei giornalisti e
dei comuni cittadini a tirare fuori cose che lo Stato non è riuscito a
far emergere, o non ha voluto, è molto imbarazzante. Poi ci sono le
questioni commerciali. Ci sono la settantina di siluri che l’Italia è
riuscita a vendere all’India poco dopo lo scoppio della vicenda. Ci sono
gli interessi di Finmeccanica. Nessuno vuole turbare i canali
commerciali tra i due Paesi. L’Italia rivuole i marò a casa e l’India
deve dare in pasto alla propria opinione pubblica un risultato. Ma così
facendo i cittadini indiani vengono turlupinati quanto i cittadini
italiani, perché un’inchiesta del genere non rende giustizia a nessuno».
Lei ha conosciuto Massimiliano Latorre a Kabul, era il suo capo scorta. Che ricordo ha di lui?
«Ricordo che, all’inizio, essendo un “veterano” dell'Afghanistan, non
ero affatto felice dell’idea che mi fosse affibbiata una scorta. Avevo
sempre e solo girato da solo. Anche egoisticamente parlando, mi sentivo
più sicuro con il mio autista afghano e la sua anonima auto scassata che
a bordo di veicoli militari riconoscibili, che mi trasformavano subito
in un bersaglio. Nonostante la mia iniziale insofferenza, si è subito
sviluppata una grande stima reciproca con i militari del San Marco e
Massimiliano Latorre, il caposcorta. Non è affatto un Rambo con il dito
sul grilletto. Quando una donna col burka attraversava la strada, faceva
subito fermare il convoglio per lasciarla passare. Con il burka,
infatti, la visibilità è estremamente ridotta e anche attraversare una
strada trafficata diventa pericolosissimo. Ricordo molto bene questi
episodi che possono sembrare curiosi, ma che danno l’idea di che persona
sia Latorre. Certe auto ministeriali con i lampeggianti e le sirene
spiegate che scarrozzano i politici in Italia sono molto più sbruffone.
Insomma, non ho mai nascosto il mio pregiudizio favorevole nei confronti
dei due marò, ma proprio non mi ci vedo Latorre a sparare a sangue
freddo ad una barca di pescatori. Non mi ci vedo i militari italiani in
genere. Non siamo come gli americani».
Già le rigidissime regole d’ingaggio che i nostri soldati devono
rispettare li espongono a rischi infinitamente superiori rispetto ai
colleghi statunitensi, inglesi, francesi o tedeschi. Crede che
l’atteggiamento remissivo del governo italiano nel difendere i due marò
avrà altre pesanti conseguenze verso i militari italiani impegnati nelle
missioni all’estero?
«Sicuramente l’atteggiamento mostrato dall’Italia finora non potrà non
ingenerare insicurezza nei nostri soldati. Se fossi di guardia in
Afghanistan, e vedessi un’ombra nel buio senza sapere se si tratta di un
pastore con il suo bastone o di un talebano con un lanciarazzi a
tracolla, ci penserei dieci volte prima di sparare, anche a costo di
mettere a repentaglio la mia vita e quella di tutti i miei compagni.
Tutto questo nonostante in anni di missione si sia verificato un solo un
caso di vittima civile caduta per errore sotto il fuoco, una piccola
macchia in un curriculum senza altri errori. A differenza di quanto è
avvenuto ad esempio agli americani, per i quali abbiamo ormai perso il
conto degli errori commessi. Gli italiani non hanno mai sparato
“allegramente”. Oggi però è peggio. Sapere che nessuno ti difende,
nessuno sta dalla tua parte, genera oltre che rabbia anche insicurezza. È
questa è la cosa peggiore per chi la sicurezza ha il dovere di
mantenerla»
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