Nella sempre più squallida e vergognosa pantomima che riguarda i
nostri Marò in attesa di processo, gli inquirenti ed il governo
dell’India si sono messi a fare il gioco dell’oca: qualche passo in
avanti verso la fatidica casella numero 63, fino a quando qualche
trappola sistemata lungo il percorso non fa tornare là da dove si era
partiti.
Appena alla fine di agosto, la NIA, National Investigation
Agency, la struttura antiterroristica indiana, aveva raggiunto la
conclusione che le indagini sulla vicenda dell’uccisione di due
pescatori indiani avvenuta il 15 febbraio del 2012 sul peschereccio St
Antony, della quale sono accusati i nostri due Marò il maresciallo Max
Latorre ed il sergente Salvo Girone, fossero state praticamente
completate. In effetti la NIA avrebbe voluto interrogare nuovamente i
quattro Marò che al momento dell’incidente erano a bordo della Enrica
Lexie con i loro due colleghi indagati. A tale proposito, prima la
Farnesina, poi il dr. Staffan de Mistura, l’inviato speciale del governo
italiano per il caso Marò, avevano recisamente escluso che i quattro
Marò potessero recarsi in India.
Tra le righe, dietro a questo diniego,
si leggeva la preoccupazione che ai quattro, una volta arrivati a New
Delhi, fosse riservato lo stesso trattamento cui sono stati fatti
oggetto Latorre e Girone: convocati a collaborare come testi, cosa
spontaneamente accettata, sono stati poi trattenuti come indagati,
arrestati, tenuti in detenzione da 18 mesi ed accusati di omicidio in
modo del tutto arbitrario, senza uno straccio di elemento che
convalidasse questa decisione delle autorità inquirenti e dei magistrati
dello stato del Kerala.
Un caso che invece di essere subito risolto ha visto perdere
tutto il 2012 dietro le discussioni circa il trattamento da riservare ai
due Marò durante la loro custodia cautelare preventiva, nonchè per
discutere velleitariamente, da parte indiana, della competenza
giurisdizionale ad inquisire i due Marò. L’Italia ha presentato svariati
ricorsi alla Corte Suprema indiana di New Delhi, e finalmente lo scorso
gennaio la situazione pareva potersi finalmente sbloccare.
Benchè abbia
omesso di rispondere direttamente al quesito sulla giurisdizione, la
Corte ha comunque avocato a sè la competenza del caso strappandola alla
bramosia di vendetta delle tracotanti autorità keralesi, decidendo
altresì, dopo più di un tentennamento, di affidare indagini, istruttoria
e processo alla NIA. Contestualmente, si concesse ai Marò di potere
attendere il processo stando ai domiciliari presso l’Ambasciata Italiana
di New Delhi, dove sono tuttora reclusi.
Inoltre, la Nia il 4 aprile scorso si dichiarò ottimista circa la
possibilità di chiudere l’istruttoria entro i 60 giorni imposti dalla
Corte Suprema, salvo, una volta ricevute le “carte” passategli dagli
inquirenti keralesi, lamentare che i tempi per la conclusione delle
indagini si sarebbero dovuti allungare in modo difficilmente
quantificabile perchè gli atti processuali rappresentavano una vera
Torre di Babele. Deposizioni, documenti, atti erano scritti in 5 lingue
diverse: italiano, tamil, malayalam, inglese ed hindi. Un problema che
era stato volutamente esagerato dalla NIA per prendere tempo e fare le
cose (e le ferie) con tutta calma. Infatti, a metà dell’estate, tutte le
carte processuali risultavano tradotte in inglese e hindi così da
potere essere comprensibili a tutti.
Bene, allora pareva che ci fossero
tutti gli ingredienti per trarre le dovute conclusioni, attese un po’ da
tutti, ed in particolare quella se rinviare a giudizio i due Marò, ed
eventualmente con quale capo d’accusa. Invece no, anzi si ritorna alla
casella di partenza perchè nei fascicoli dell’istruttoria manca la
testimonianza dei quattro colleghi dei due Marò indagati, cioè Renato
Voglino, Massimo Andronico, Antonio Fontana ed Alessandro Conte.
In effetti le deposizioni dei quattro ci sono, altrochè.
All’inizio della storia, la Lexie ed il suo equipaggio, inclusi una
decina di marinai indiani, sono rimasti sequestrati per due mesi nel
porto di Kochi a completa disposizione ed in balìa della polizia del
Kerala e della locale Capitaneria di Porto. Durante quella sosta
forzata, la Lexie è stata perquisita quasi ogni giorno alla ricerca di
armi che fossero compatibili con i proiettili che hanno ucciso i due
pescatori, senza che mai fosse trovato nulla di probatorio contro i Marò
indagati. In quelle occasioni, i quattro Marò rimasti a bordo sono
stati interrogati innumerevoli volte dalla polizia del Kerala, per cui
la richiesta della NIA di volerli reinterrogare appare quanto meno
sospetta, se non uno squallido pretesto per prendere tempo in attesa che
le acque attorno al caso si quetino e le luci si smorzino per procedere
a fari spenti, senza dare nell’occhio.
Anche perchè, proprio per
evitare ulteriori complicazioni, da parte italiana si era andati
incontro alle presunte “esigenze” della NIA proponendo tre valide
alternative al viaggio dei 4 Marò in India per testimoniare:
l’interrogatorio in videoconferenza, per rogatoria o diretto, ma con gli
inquirenti indiani a spostarsi in Italia, magari a nostre spese, mogli e
concubine al seguito, viaggio in business class ed albergo a cinque
stelle. Ma la NIA si è dimostrata irriducibile ed irragionevole ed ha
sdegnosamente rifiutato ogni possibile alternativa a quella che, stando
ai precedenti, sarebbe una vera e propria estradizione in India dei
quattro Marò.
A tale proposito, va ricordato che pende sulla vicenda
l’inquietante referto della perizia balistica fatta dagli “esperti”
indiani, i quali hanno fornito all’ammiraglio Alessandro Piroli, cui fu
affidata l’inchiesta interna della Marina Militare, indicazioni che
portano alla conclusione che a sparare non furono Latorre e Girone, ma
altri due dei sei Marò che erano a bordo della Lexie al momento
dell’incidente. Sono conclusioni tutte da dimostrare visto che gli
indiani, in particolare l’anatomopatologo prof. Sisikala che effettuò la
prima necroscopia, avevano in un primo momento indicato come calibro
dei proiettili il 7.65, forse pensando che fosse compatibile con le armi
NATO, salvo poi cancellare tutto ed indicare quello di 5.56, questo sì
compatibile con le armi dei Marò. Va anche detto che i fucili dei Marò a
bordo della Lexie sono stati sequestrati ed utilizzati per i test
balistici da parte degli indiani senza alcuna garanzia, trasparenza o
coinvolgimento della difesa degli indagati e senza rispettare alcuno
degli standard internazionali previsti in questi casi, come testimoniato
da due funzionari del RIS dei Carabinieri, ammessi solo alle primissime
perizie e solo come silenti osservatori.
Nonostante tutto questo, nel
numero del 6 aprile di quest’anno, La Repubblica prese al solito per
buona acriticamente ed a scatola chiusa la “verità” fornita dagli
indiani, arrivando a titolare in un vergognoso articolo a firma di Maura
Gualco e Vincenzo Nigro : “Marò, la verità degli italiani su quei 33
minuti. Il giallo: i fucili erano quelli di altri soldati”. Un titolo
volutamente fuorviante, perchè fa credere che sia stato il relatore amm.
Alessandro Piroli ad arrivare a quella conclusione, ma in effetti sono
stati gli indiani a dire a lui, nel referto che gli hanno inviato, che i
proiettili erano compatibili con le armi di altri due Marò, e Piroli
s’è limitato a prendere atto ed a riportare le conclusioni degli
indiani. Che si tratti di una volgare montatura, cui La Repubblica si è
subito associata con entusiasmo, si dimostra facilmente: se gli
inquirenti indiani fossero convinti che a sparare siano stati altri e
non Latorre e Girone, perchè continuano ad accusare questi due anzichè
rilasciarli e chiedere, eventualmente, l’estradizione di quelli che
secondo loro sarebbero i “veri” responsabili della sparatoria? Questo La
Repubblica non se lo chiede, noi invece sì.
Ed arriviamo così a fine agosto, quando sembrò che il braccio di
ferro Italia-India sui 4 Marò testimoni potesse avere finalmente
termine. Su molti quotidiani indiani, noi ne prendiamo uno a
riferimento, The Times of India che è quello più diffuso in lingua
inglese, il 22 agosto 2013 funzionari della NIA, il cui sport preferito
pare essere quello di conservare l’anonimato, così si espressero:
“Possiamo chiudere il caso anche subito senza le deposizioni degli altri
4 “Italian marines” che assistettero all’omicidio dei due pescatori
indiani. (Prego notare: i Marò sono testi oculari per gli inquirenti, il
che significa che che si dà per scontato che Latorre e Girone sono
colpevoli a priori ed a prescindere. Un atteggiamento questo condiviso e
fatto proprio dalla sinistra italiana colpevolista viscerale, e dalla
stampa che la rappresenta, con L’Espresso e La Repubblica in primissima
fila, per non dire del Manifesto, FQ, l’Unità e via cantando, ndr)”.
Aggiunsero poi le anonime fonti della NIA: “Il fascicolo
dell’istruttoria non è condizionato alle dichiarazioni dei quattro
marines, per cui se persisteranno nel loro atteggiamento di non volere
venire in India, noi manderemo avanti il procedimento anche senza le
loro testimonianze. Anche perchè, all’occorrenza, potremmo sempre
intervenire ad integrare il chargesheet (la requisitoria) in un secondo
momento”.
A questo punto, manca solo che si dica se e quando ci sarà un
processo, ma nel gioco dell’oca l’imprevisto incombe ed ancora una volta
si torna indietro.
Ieri, 17 settembre, sulla stampa indiana sono apparse due notizie
che riguardano il caso Marò. La prima è che addirittura il governo
indiano starebbe per presentare al più presto una denuncia presso la
Corte Suprema di New Delhi contro i quattro Marò italiani, il cui
rifiuto a recarsi in India a testimoniare di fronte ai magistrati
antiterrorismo (sic!!!) della NIA sta ritardando l’avvio del processo
per omicidio di due loro colleghi e compatrioti. Si pensi che secondo la
fonte che dà questa notizia, il passo del governo sarebbe suggerito dal
timore che il vertice della Corte Suprema scagli i suoi strali contro
un esecutivo il quale, quando lo scorso marzo gli fu imposto di
accelerare i tempi del processo, da celebrarsi con udienze giornaliere
presso una corte speciale appositamente costituita (che poi fu indicata
nella NIA, ndr), rispose di essere convinto di poter risolvere tutto in
“un paio di mesi”. A marzo.
Sei mesi dopo non solo il processo non è
cominciato, ma stiamo proprio in alto mare. Sì, perchè la NIA adesso ci
ha ripensato e contrariamente a quello che ha detto meno di un mese fa,
adesso siamo tornati alla casella che dice che senza i quattro Marò che
stanno in Italia, questo processo non si può proprio fare. Per cui, il
solito funzionario della NIA avvolto nel più misterioso anonimato, ha
ieri dichiarato ad ET, che in India è la pagina economica del Times, che
loro “vogliono che i colleghi dei due marines accusati dell’uccisione
di Ajesh Binki e Jelestine il 15 febbraio del 2012 al largo del Kerala
si presentino in India, condizione che se non rispettata fa della
possibilità di un processo immediato e veloce la voce di un’eco che si
allontana, che si allontana sempre di più…”
Riferendosi poi alla possibile iniziativa del governo indiano di
denunciare i quattro mancati testimoni con la quale vuole mettere le
mani avanti e ribaltare sull’Italia l’accusa di ritardare il
procedimento, un funzionario del ministero della giustizia dell’Unione
Indiana, che ha anche lui chiesto di non essere identificato, ha
indicato che l’obbiettivo è quello di informare il vertice della Corte
Suprema della situazione di stallo, al fine di avere indicazioni sul da
farsi. Ecco fatto, qui siamo incorsi in una grave penalizzazione del
gioco dell’oca e siamo addirittura tornati alla casella di partenza, la
numero zero, quella in cui ci trovavamo a gennaio 2013.
Quindi, sino a
che la Corte Suprema non si degnerà di esprimersi nel merito, per la
vicenda si annuncia calma piatta e più nulla da segnalare. Però, mentre
il tempo scorre inutilmente per i Marò detenuti in India, possiamo sin
d’ora anticipare alla Farnesina che presto riceverà una nota ufficiale
da parte del ministero degli Affari Esteri dell’Unione Indiana “per
sottolineare all’Italia l’importanza rivestita dalla testimonianza dei
quattro Marò per l’istruttoria della NIA e di raggiungere una piena
armonia tra Italia ed India per cooperare nel caso”.
In conclusione, sembra di capire che gli indiani comincino ad
essere stanchi del caso Marò e che vogliano pertanto cambiare gioco.
Essendo per loro da escludere a priori che i nostri Marò possano essere
innocenti, come si consiglierebbe invece di considerare visto che nulla,
dagli orari alle risultanze probatorie, combacia tra i fatti dimostrati
ed il teorema accusatorio, ora dal gioco dell’oca vorrebbero passare ad
anghingò, cosa che finalmente permetterebbe loro, se disponessero di
tutti e sei i Marò che erano sulla Lexie, di affidare alla sorte la
decisione di quali siano tra i sei, i due che secondo loro avrebbero
sparato, uccidendoli, ai loro pescatori :ambarabà ciccì coccò, tre
civette sul comò… Per colpa di tutti gli inetti ed incapaci annidati nei
governi che hanno gestito il caso dei Marò, oltre al danno pure la
beffa dobbiamo sopportare.
Fonte: http://www.qelsi.it/
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