sabato 15 febbraio 2014

MARO’: L’ITALIA S’E’ DESTA…TARDI

Quanto importi alla classe politica italiana di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre lo hanno dimostrato due anni di silenzi, figuracce e tradimenti ma lo dimostra chiaramente in questi giorni anche la caduta pilotata del governo Letta e la sua sostituzione a tavolino con il premierato di Matteo Renzi a poche ore dalla (prevista) decisione della Corte Suprema indiana circa l’incriminazione dei due fucilieri di Marina in base alla legge anti-pirateria e anti-terrorismo SUA Act. Se venisse approvato l’atto d’accusa le reazioni del premier e dei ministri e funzionari preposti a seguire il caso (Emma Bonino, Mario Mauro e Staffan De Mistura) risulterebbero ulteriormente indebolite dalla scadenza del loro incarico. Una vulnerabilità di cui Enrico Letta sembra essere consapevole come dimostra la nota di Palazzo Chigi di questa mattina, poco prima delle dimissioni del premier. “Voglio ribadire i miei sentimenti di vicinanza a Salvatore Girone e Massimiliano Latorre e alle loro famiglie. Sono certo che l’impegno delle istituzioni italiane e dell’Italia intera continuerà con determinazione fino alla soluzione della vicenda” si legge nella nota. Con un minimo di buon senso si poteva attendere il pronunciamento della Corte Suprema prima di cambiare governo, il terzo a dover gestire il “caso marò” da quando la vicenda prese il via il 15 febbraio 2012.

A questo proposito gli elementi di riflessione vanno ben al di là della vicenda dei marò. Il governo Letta, nato dalle larghe intese raggiunte dopo le elezioni dell’anno scorso, smobilita per far entrare a Palazzo Chigi un premier che ha vinto solo le elezioni a sindaco della sua città e le primarie del suo partito e porta nei diversi ministeri i suoi fedelissimi. Il tutto deciso in stile sovietico dal “comitato centrale” del PD senza chiedere il permesso e il parere agli italiani ma con il via libera (a quanto sembra) di quasi tutti i partiti i cui eletti sembrano ben lieti di conservare la poltrona invece di rimetterla in gioco alle urne. Niente male per l’uomo che dovrebbe portare una ventata di rinnovamento nella politica. Di questo passo basterà venire eletti presidenti della bocciofila o rappresentanti di condominio per pretendere incarichi governativi. Fa sorridere (ma di amarezza) che pochi giorni or sono l’Italia si sia accodata alle dure critiche della Ue al referendum svizzero sull’immigrazione, a conferma di come questa Europa e questa Italia  improntate con arroganza al dirigismo verticistico abbiano un concetto di democrazia sempre più vago e crescenti insofferenza e noncuranza per la volontà popolare.

Tornando alla vicenda dei marò non si può certo dire che il governa Letta sia stato un fulmine di guerra anche se nelle ultime settimane ci sono stati tardivi e spesso raffazzonati tentativi di alzare i toni con Nuova Delhi. Iniziative che, perdonerete il cinismo, sono apparse determinate non tanto da un rigurgito di dignità nazionale e patriottismo quanto dal rischio che qualche forza politica potesse sfruttare la vicenda in vista delle prossime elezioni europee e comunali.  Come interpretare l’iniziativa di inviare una delegazione parlamentare  (dopo due anni?) a Nuova Delhi se non con la necessità dei principali partiti di non lasciare campo libero al M5S che per primo aveva annunciato l’invio di propri parlamentari per avere chiarimenti dal governo indiano? I gruppi parlamentari erano presi più dalla foga di non concedere un vantaggio ai grillini che dalla volontà ferrea di esercitare una formidabile pressione sulle istituzioni indiane, come dimostra il fatto che il drappello italico giunto a Nuova Delhi ha incontrato Latorre e Girone ma è stato ignorato dai “colleghi” indiani.

 Sarebbe bastato pianificare per tempo la missione o almeno guardare il calendario per scoprire che si sarebbero recati in India durante la festa nazionale, giorno di vacanza anche per la politica. Inoltre non ci volevano certo sagaci consiglieri diplomatici per intuire che con le elezioni imminenti nessun deputato di Delhi avrebbe voluto rischiare di essere tacciato di collusione con gli italiani (si pensi a quanti problemi ha Sonia Gandhi per le sue origini) incontrando la delegazione parlamentare guidata da Pierferdinando Casini. Non si può del resto dare torto agli indiani forse preoccupati che dopo i numerosi e rocamboleschi cambi di schieramento in Italia, Casini volesse allearsi con il Partito del Congresso compromettendone le residue speranze di vincere le elezioni. Battute a parte sembra incredibile che solo nelle ultime tre settimane si sia compreso che nella vicenda dei due fucilieri di Marina sono in gioco non solo gli interessi ma anche quel che resta della credibilità nazionale e dopo due anni di immotivato e ridicolo silenzio-stampa Roma ha persino autorizzato i marò a rispondere alle domande dei giornalisti.

Pur contestando più volte la pretesa indiana di applicare le proprie leggi l’Italia ha di fatto accettato da un pezzo la giurisdizione di Delhi partecipando alle udienze con i suoi avvocati e presentando ricorsi alla Corte Suprema. Eppure tutti i maggiori esperti di diritto internazionale hanno sottolineato in più occasioni che i militari non possono venire processati in Paesi stranieri per quanto compiuto durante il servizio. Dell’operato di Latorre e Girone può essere chiesto conto solo allo Stato italiano mentre i due marò, se hanno compiuto atti illeciti, ne renderanno conto alle autorità giudiziarie italiane. Lo sanno bene anche gli indiani che nel 2008 rimpatriarono dal Congo 12 ufficiali e 36 soldati del contingente di caschi blu, accusati di stupri e rapimenti di donne e bambine congolesi costrette poi a prostituirsi dentro le basi militari. Militari che in India hanno subito solo sanzioni risibili ma che Nuova Delhi non ha certo lasciato alla mercé del tribunale di Kinshasa. Roma ha però accettato l’abuso indiano di non riconoscere l’immunità funzionale dei due marò, non ha voluto ricorrere all’arbitrato internazionale (il ministro Mario Mauro ha proposto solo oggi questa soluzione, nell’ultimo Consiglio dei ministri del governo Letta) e nel marzo scorso ha persino riconsegnato all’India i due sottufficiali in cambio di supposte e vaghe garanzie che non verrà loro applicata la pena di morte. Perché una condanna a 10 o più anni di reclusione verrebbe forse considerata accettabile o magari un “successo”?

A parte le perizie balistiche corrette e sbianchettate, le testimonianze contraddittorie e più volte rettificate dell’equipaggio del peschereccio Saint Antony e tutti gli elementi del caso (inclusa l’accoglienza affettuosa riservata loro l’anno scorso dal Presidente della Repubblica) che inducono a ritenere Latorre e Girone  innocenti come ha sostenuto in più occasioni  il ministro Mauro, resta inaudito che Roma abbia accettato la metodologia processuale imposta da Delhi. Un processo presso un “tribunale speciale” istituito dalla Corte Suprema e dal governo indiano la cui valenza politica è dimostrata dai litigi tra tre ministri (Esteri, Giustizia e Interni) circa la legge da applicare e le imputazioni a da attribuire a carico di  Latorre e Girone. Ma in quale Paese dove sia vigente lo Stato di diritto sono i ministri, i membri del governo, a stabilire le imputazioni nei tribunali?

Il 18 febbraio la Corte dovrebbe esprimersi circa la richiesta dell’accusa di processare i nostri militari in base alla SUA Act, ipotesi che ha fatto infuriare l’Italia che ritiene giustamente inaccettabile l’equiparazione di suoi militari a pirati e terroristi. Meglio non farsi illusioni circa le decisioni indiane anche se Delhi sembra essersi imbrigliata nella sua stessa rete. Se processa due militari in servizio anti-pirateria in base alla SUA Act si espone a possibili ripercussioni internazionali perché oltre a non riconoscere l’immunità funzionale di Latorre e Girone finirebbe per  accusare l’Italia di essere uno “stato canaglia” dedito a terrorismo e pirateria. Il fatto che la pena di morte non venga richiesta imputando ai due militari solo atti di violenza che prevedono una pena fino a dieci anni e non l’omicidio non risolve certo la questione ma la rende ancor più ridicola. Se si ritengono colpevoli perché non accusarli di omicidio per i due pescatori uccisi? Se non lo sono che senso ha l’accusa di violenze?

Il problema vero è che l’India non dispone di strumenti giuridici diversi dalla SUA Acti per perseguire Latorre e Girone per un atto accaduti fuori dalle acque territoriali. Per questo la Corte Suprema di Delhi negò all’Alta Corte del Kerala la possibilità di giudicare i due italiani imputabili solo attraverso la legge federale contro pirateria e terrorismo con cui l’India si arrogò nel 2002 il diritto di perseguire questi reati in tutta la Zona economica esclusiva che si estende fino a 200 miglia dalla costa. Se rinunciano all’imputazione in base alla SUA Act gli indiani devono rilasciare Latorre e Girone ma applicando quella legge si espongono alle critiche internazionali e alla possibilità che Roma si rivolga a un tribunale internazionale. Nonostante in due anni non sia riuscito a incriminarli, il governo indiano non può permettersi però di prosciogliere Latorre e Girone perché rimedierebbe una figuraccia che sul piano interno che avrebbe pesanti ripercussioni sulle imminenti elezioni di maggio. Anche il rilascio di Latorre e Girone con l’escamotage di un ritorno in Italia in attesa del processo, soluzione chiesta a gran voce dall’Italia, verrebbe giudicato dall’opinione pubblica un atto di debolezza da parte del Partito del Congresso o un favore di Sonia Gandhi al suo Paese d’origine.

Per queste ragioni la vicenda rischia di protrarsi ancora a lungo ed è meglio non contare troppo sul supporto internazionale. Il segretario generale dell’Onu, Ban ki-mon non sembra entusiasta di farsi carico della crisi e l’Italia non pare proprio avere gli attributi per dare segnali forti ritirando immediatamente tutti i caschi blu presenti nelle missioni dell’ONU.  Al di là delle frasi di circostanza anche sui nostri partner europei è meglio non fare troppo affidamento tenendo conto che molti sono ben lieti di poter fare buoni affari con l’India speculando sulla crisi tra Roma e Nuova Delhi che ha già determinato dal 2012 un crollo dell’interscambio commerciale dopo molti anni di crescita. Per Latorre e Girone il rischio concreto e immediato è che il tribunale pretenda la loro presenza in aula per poi farli arrestare e tenerli in custodia per il periodo del processo. Un’ipotesi che va scongiurata tenendo i due militari confinati nell’ambasciata di Delhi oppure mobilitando gli opportuni apparati nazionali per cercare di farli uscire clandestinamente dal Paese, con la conseguente rottura dei rapporti con Nuova Delhi. Ammesso che qualcuno a Roma abbia gli ttributi per firmare un ordine del genere.

Fonte:  http://www.analisidifesa.it/

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