A fronte del “consueto rinvio” della Corte Suprema dell’India sul caso
dei due marò, si manifestano puntualmente reazioni roboanti del tipo
“ora basta”, la “misura è colma”. Ma a parte le schermaglie
diplomatiche, con tanto di convocazioni di ambasciatori, cosa è
possibile fare? Esaminiamo di seguito alcune opzioni.
Restare in ambasciata
La prima potrebbe essere quella di tenere i due fucilieri di marina
nella nostra ambasciata di New Delhi, in modo che essi non si presentino
più all’appuntamento settimanale con la polizia indiana per apporre la
firma sul registro. La motivazione è semplice: l’India non ha
giurisdizione sul caso e l’Italia afferma la propria sovranità.
Ovviamente si creerebbe un incidente diplomatico. Non credo che l’India
si comporterebbe come l’Iran nel 1979 nei confronti degli Stati Uniti,
consentendo l’invasione della nostra ambasciata. Potrebbe però arrivare
alla rottura delle relazioni diplomatiche con conseguente intimazione al
nostro personale diplomatico di lasciare il territorio. In caso
contrario, i due fucilieri resterebbero nella missione fino a quando la
questione non venisse risolta. La prassi diplomatica è ricca di episodi
simili.
Arbitrato Internazionale
La seconda opzione è quella di attivare l’arbitrato internazionale, come
da qualche tempo si sta ventilando. Qui bisogna essere chiari. Le
condizioni per attivare l’arbitrato sono due: l’esistenza di una
controversia internazionale e la volontà di sottoporre la questione ad
un’istanza arbitrale, volontà che può essere manifestata prima della
nascita della controversia mediante una clausola compromissoria o altro
strumento, oppure successivamente, sempre che le parti siano d’accordo.
La Convenzione contro il terrorismo marittimo, che l’India vorrebbe
applicare al caso in esame, contiene una clausola che permette di
deferire, a richiesta di parte, ogni controversia circa la sua
applicazione o interpretazione ad arbitrato o alla Corte internazionale
di giustizia. Ma l’India, come consentito dalla Convenzione , ha apposto
una riserva e non è vincolata dalla clausola.
Resta la via della
procedura arbitrale contenuta nell’Annesso VII alla Convenzione delle
Nazioni Unite sul diritto del mare che, a quanto sembra, è possibile
attivare unilateralmente.
Qui vedo i seguenti ostacoli. Il primo è il fattore tempo. Come
dimostrano i precedenti, occorrono 3-4 anni per terminare la procedura
arbitrale. Il Tribunale ovviamente deciderebbe sulla controversia tra i
due Stati, il cui oggetto riguarda l’esercizio della giurisdizione, ma
non potrebbe giudicare dell’eventuale responsabilità penale dei due
marò.
Nelle more il Tribunale potrebbe disporre come misura provvisoria il
ritorno dei marò in Italia o il loro affidamento a un terzo Stato (quale
e fino a quando?). Il ritorno in Italia lo trovo poco credibile, dopo
il pasticcio della licenza elettorale e la non esecuzione dell’impegno a
far ritornare in India gli altri quattro marò che componevano la
squadra a bordo della Enrica Lexie, impegno che era stato assunto per
consentire alla nave di ripartire.
Vi sono poi le motivazioni di merito. Il punto forte della difesa
italiana è costituito dall’immunità funzionale dei militari e non dal
fatto che l’incidente è accaduto in alto mare.
Il Tribunale arbitrale,
dovendo giudicare in base alla Convenzione sul diritto del mare,
potrebbe lasciare da parte la questione dell’immunità funzionale che, è
bene ricordarlo, è una costruzione dottrinale (cui il sottoscritto
crede), ma non è oggetto di una convenzione internazionale ad hoc.
Infine l’India potrebbe opporsi, anche come tattica dilatoria, alla
procedura arbitrale, affermando che non esiste una controversia
internazionale e che l’Italia ha rinunciato a coltivarla, intervenendo
nel processo di fronte ai tribunali indiani.
Difesa nel processo
La terza opzione è quella finora seguita: difendersi nel processo e non
dal processo per dimostrare ai tribunali indiani che non è applicabile
la legge antiterrorismo, che l’India non ha giurisdizione e così via. In
caso di condanna, e una volta che la sentenza sia divenuta definitiva, è
possibile attivare il Trattato Italia-India sul trasferimento delle
persone condannate e chiedere che i marò siano traferiti in Italia.
Richiesta che peraltro non è di automatica esecuzione, ma resta
subordinata a un accordo ad hoc tra i due paesi. Peccato che in questo
caso non si realizzerebbe una delle condizioni di cui si sente tanto
parlare e cioè che i marò tornino in Italia con onore!
Iniziativa internazionale
La quarta opzione - quella che si sta seguendo in questi giorni insieme
alla precedente, ma che si è tentato di coltivare senza successo anche
in passato - è quella di una forte iniziativa diplomatica, volta ad
un’efficace opera di sostegno dei nostri alleati.
Beninteso la questione non deve essere impostata come un problema di
diritti umani, ma di sovranità e difesa di coloro che si dedicano alle
missioni antipirateria. Qualcosa si è mosso in ambito Unione Europea e
Nato. L’idea di far intervenire il Segretario generale delle Nazioni
Unite va perseguita, quantunque finora non abbia trovato il riscontro
sperato. Peccato che gli Stati Uniti, che avrebbero molte carte da
giocare nei confronti dell’India, si siano mostrati finora latitanti:
eppure, come qualcuno ha ricordato, siamo stati al loro fianco in
Afghanistan ed Iraq.
Verso una nuova convenzione
La scelta della via migliore da perseguire è una scelta politica che
dovrà essere messa di nuovo a fuoco dal prossimo governo. Non è detto
che esista un metodo unico, ma ci può essere una combinazione dei vari
metodi. Per rendere più credibile la sua azione presso le competenti
istituzioni internazionali, l’Italia potrebbe intanto proporre una
convenzione internazionale volta a disciplinare il personale armato
(militari e contractor) imbarcati su navi mercantili a difesa degli
attacchi pirateschi.
La convenzione dovrebbe stabilire che, in caso di incidente, la
giurisdizione penale spetti esclusivamente allo stato della bandiera su
cui è imbarcato il personale armato. Il caso della Enrica Lexie sarebbe
l’occasione per una nuova codificazione internazionale, come lo fu
l’incidente del Lotus negli anni venti (una collisione tra una nave
francese ed una turca in Mediterraneo) per disciplinare in senso
favorevole allo Stato della bandiera l’urto tra navi ed altri incidenti
della navigazione.
Fonte: http://www.affarinternazionali.it/
Nessun commento:
Posta un commento