L’India non sta facendo una bella figura, ma anche noi italiani - dobbiamo riconoscerlo - non stiamo brillando. Di mezzo ci sono loro, i due Marò pugliesi. Sono gli unici, colpevoli o innocenti che siano, che stanno mostrando grande dignità e straordinario senso del dovere. Le autorità indiane, in un evidente imbarazzo, stanno giocando con loro e con la loro capacità di resistere, forse per cercare di fiaccarne lo spirito.
Non è semplice prepararsi ad affrontare un giudizio - in cui fino a pochi giorni fa si rischiava anche la pena di morte - e poi vedere tutto rimandato.
Un’altra settimana di voci, chiacchiericci, telefonate alle famiglie lontane, un’altra udienza e un altro rinvio. A molti altri sarebbero già saltati i nervi. Ma Girone e Latorre - e da pugliesi dovremmo esserne più che orgogliosi - restano imperturbabili e silenziosi. Mai si sarebbero sognati di trovarsi in una vicenda così ingarbugliata che neppure il miglior Kafka sarebbe riuscito a raccontare.
C’è un aspetto che forse in molti ignorano e riguarda la posizione giuridica dei due fucilieri secondo le norme del diritto internazionale. Mentre erano impiegati in missione antipirateria sulla nave «Enrica Lexie» godevano della cosiddetta «immunità funzionale», garantita dal diritto internazionale. Immunità funzionale significa che i comportamenti di «organi» dello Stato che agiscano nell’ambito delle loro attribuzioni sono da considerarsi come riferibili allo Stato e non all’individuo. Ora Girone e Latorre erano e sono in questa condizione poiché la loro missione è avvenuta in seguito a una legge dello Stato (la 130/2011) che a sua volta aveva recepito la risoluzione n. 1897/2009 del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Altro che terroristi o pirati.
Proprio questa particolare posizione faceva sì che Latorre e Girone potessero legittimamente rifiutarsi di tornare in prigionia in India all’indomani della licenza ottenuta per Natale 2012. Invece, da galantuomini, ancora una volta hanno obbedito e con dignità e onore sono tornati a consegnarsi alle autorità indiane. Questo passaggio chiarisce la polemica innescata ieri dall’ex ministro Terzi contro l’ex premier Monti, che avrebbe spinto i due Marò a tornare in India in nome di non meglio precisati interessi economici dell’Italia.
Un’ultima considerazione di carattere giuridico e forse anche questa trascurata: l’imbarcazione sulla quale sono morti i due pescatori, al momento della sparatoria, avvenuta in acque internazionali, non issava la bandiera indiana né risulta iscritta al registro navale indiano. Particolare che da solo basterebbe a escludere, secondo le norme del diritto internazionale e secondo la stessa legge indiana (l’Indian merchant shipping act del 1958) la possibilità di ritenere il peschereccio di nazionalità indiana.
Ma queste sono considerazioni su cui stanno dibattendo gli avvocati mettendo in crisi la pretesa del governo di Delhi. Perché se dopo due anni non si riesce a formulare un’accusa che stia in piedi, se la stessa Corte Suprema deve arrampicarsi sugli specchi per non ammettere che i due Marò vanno rimandati a casa, è evidente che sono in difficoltà. E le parole di ieri del giudice che presiedeva l’udienza sono emblematiche: «Le parti sono in disaccordo e quindi spetta a questa Corte decidere». Come dire che la proposta del governo di Delhi di processare i Marò per violenza, ma sempre in base alla legge antipirateria (Sua act) non è condivisa dai supremi giudici.
Adesso bisogna aspettare un’altra settimana per conoscere la nuova decisione. Ma non può essere un altro tempo di sterili dichiarazioni roboanti. L’Italia che da ieri è ufficialmente accusata di essere uno Stato terrorista, quasi fosse l’Afghanistan al tempo dei talebani, deve difendere con ogni mezzo il suo onore e il suo prestigio. Esattamente come dal primo giorno, con discrezione e tenacia, stanno facendo due anonimi soldati figli di un Sud povero e piagnone, ma che sa bene quando è il momento di mostrare tutto il suo legittimo orgoglio.
In questa vicenda così strana e ingarbugliata e in questo tempo così sbandato, Girone e Latorre hanno il merito di essere gli unici a mostrare con coraggio e tenacia una coerenza di ferro. Scusate se è poco e scusate anche se sono loro a tenere alto in questo momento il buon nome dell’Italia.
Un’altra settimana di voci, chiacchiericci, telefonate alle famiglie lontane, un’altra udienza e un altro rinvio. A molti altri sarebbero già saltati i nervi. Ma Girone e Latorre - e da pugliesi dovremmo esserne più che orgogliosi - restano imperturbabili e silenziosi. Mai si sarebbero sognati di trovarsi in una vicenda così ingarbugliata che neppure il miglior Kafka sarebbe riuscito a raccontare.
C’è un aspetto che forse in molti ignorano e riguarda la posizione giuridica dei due fucilieri secondo le norme del diritto internazionale. Mentre erano impiegati in missione antipirateria sulla nave «Enrica Lexie» godevano della cosiddetta «immunità funzionale», garantita dal diritto internazionale. Immunità funzionale significa che i comportamenti di «organi» dello Stato che agiscano nell’ambito delle loro attribuzioni sono da considerarsi come riferibili allo Stato e non all’individuo. Ora Girone e Latorre erano e sono in questa condizione poiché la loro missione è avvenuta in seguito a una legge dello Stato (la 130/2011) che a sua volta aveva recepito la risoluzione n. 1897/2009 del Consiglio di sicurezza dell’Onu. Altro che terroristi o pirati.
Proprio questa particolare posizione faceva sì che Latorre e Girone potessero legittimamente rifiutarsi di tornare in prigionia in India all’indomani della licenza ottenuta per Natale 2012. Invece, da galantuomini, ancora una volta hanno obbedito e con dignità e onore sono tornati a consegnarsi alle autorità indiane. Questo passaggio chiarisce la polemica innescata ieri dall’ex ministro Terzi contro l’ex premier Monti, che avrebbe spinto i due Marò a tornare in India in nome di non meglio precisati interessi economici dell’Italia.
Un’ultima considerazione di carattere giuridico e forse anche questa trascurata: l’imbarcazione sulla quale sono morti i due pescatori, al momento della sparatoria, avvenuta in acque internazionali, non issava la bandiera indiana né risulta iscritta al registro navale indiano. Particolare che da solo basterebbe a escludere, secondo le norme del diritto internazionale e secondo la stessa legge indiana (l’Indian merchant shipping act del 1958) la possibilità di ritenere il peschereccio di nazionalità indiana.
Ma queste sono considerazioni su cui stanno dibattendo gli avvocati mettendo in crisi la pretesa del governo di Delhi. Perché se dopo due anni non si riesce a formulare un’accusa che stia in piedi, se la stessa Corte Suprema deve arrampicarsi sugli specchi per non ammettere che i due Marò vanno rimandati a casa, è evidente che sono in difficoltà. E le parole di ieri del giudice che presiedeva l’udienza sono emblematiche: «Le parti sono in disaccordo e quindi spetta a questa Corte decidere». Come dire che la proposta del governo di Delhi di processare i Marò per violenza, ma sempre in base alla legge antipirateria (Sua act) non è condivisa dai supremi giudici.
Adesso bisogna aspettare un’altra settimana per conoscere la nuova decisione. Ma non può essere un altro tempo di sterili dichiarazioni roboanti. L’Italia che da ieri è ufficialmente accusata di essere uno Stato terrorista, quasi fosse l’Afghanistan al tempo dei talebani, deve difendere con ogni mezzo il suo onore e il suo prestigio. Esattamente come dal primo giorno, con discrezione e tenacia, stanno facendo due anonimi soldati figli di un Sud povero e piagnone, ma che sa bene quando è il momento di mostrare tutto il suo legittimo orgoglio.
In questa vicenda così strana e ingarbugliata e in questo tempo così sbandato, Girone e Latorre hanno il merito di essere gli unici a mostrare con coraggio e tenacia una coerenza di ferro. Scusate se è poco e scusate anche se sono loro a tenere alto in questo momento il buon nome dell’Italia.
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