In attesa dell'imminente giornata del 27 Giugno, quando si terrà un
delicato summit a Parigi con tutti gli elementi di spicco della
dissidenza iraniana all'estero, Epoch Times pubblica in esclusiva
un'intervista all'Ambasciatore e già ministro degli Esteri Giulio Terzi
di Sant'Agata.
Violazioni del diritto internazionale umanitario, omertà dei governi e
ragion di stato nell’area iraniana e della zona mediorientale: tutte
problematiche internazionali che l’Occidente dovrebbe affrontare con
grande urgenza, mentre il fantasma della bomba atomica di Teheran si
avvicina inesorabilmente.
Il 18 maggio, Sadeq Larijani – capo della magistratura dei
Mullah, e considerato dalle organizzazioni internazionali come
direttamente responsabile delle torture quotidiane e delle esecuzioni di
gruppo in Iran – nel suo incontro con il capo del Consiglio Giudiziario
Supremo dell'Iraq ha chiesto che i membri dell'Organizzazione dei
Mojahedin del Popolo Iraniano (Pmoi/Mek) in Iraq vengano «riportati in
Iran per essere processati, perché se non venissero processati ciò
sarebbe contro la legge». La richiesta di Larijani di estradare dei
rifugiati sotto protezione internazionale dimostra la forza che il
governo iraniano pensa di poter vantare. Come intervenire in tale
contesto?
È davvero preoccupante e francamente intollerabile quanto è avvenuto
in Iraq in particolare da un anno a questa parte nei confronti dei
membri dell'Organizzazione dei Mojahedin del Popolo Iraniano (Pmoi/Mek).
Un nome ancora troppo poco conosciuto in Occidente, ma bisogna
ricordare chi sono e cosa rappresentano questi strenui oppositori della
teocrazia sciita. Proprio in questi giorni a Roma, nella sede del
Partito Radicale è stato presentato il libro Una voce in capitolo
di Esmail Mohades. Iraniano residente da molti anni in Italia, il dott.
Mohades aveva partecipato, dopo l'arrivo di Khomeini al potere, alle
manifestazioni di centinaia di migliaia di Mojahedin contro
l'assolutismo sciita. Si trattava di un movimento con radici profonde
nella società iraniana, guidato da una personalità carismatica come
Massoud Rajavi. Sin dalla metà degli anni sessanta i Mojahedin erano
stati perseguitati atrocemente dalla polizia segreta dello Shah-la
Savak, perché volevano il rovesciamento di una dinastia rivelatasi
totalitaria, violenta e corrotta, mentre il popolo – di cui i Mojahedin
si sentivano l'espressione – invocava una sterzata drastica verso la
democrazia, la libertà individuale e la giustizia sociale. Così come lo
Shah, anche Khomeini e Kamenei hanno sempre visto nel Pmoi/Mek un
pericolo mortale per il regime, tanto più che i Mojahedin hanno
effettuato, o ne sono comunque stati ispiratori durante gli anni 80,
azioni militari contro gli Ayatollah. Le cose per il Pmoi/Mek si sono
però complicate negli anni 90 e poi nel 2003: questi oppositori del
regime hanno fatto le spese dei "tentativi di dialogo" – peraltro
falliti – tra Usa e Iran, e molti temono che emerga nuovamente oggi la
tentazione di "sacrificare" la sicurezza e la sopravvivenza stessa dei
Mojahedin sull'altare di un "riavvicinamento" con l'Iran in chiave
nucleare e anti Jihadista. Nel suo libro, Mohades racconta due episodi
allarmanti per ciò che potrebbe accadere dopo le reiterate insistenze di
Laridjani per processare in Iran tutti i tremila residenti di Camp
Liberty. Nel 1997 il Dipartimento di Stato rispondeva positivamente alle
sollecitazioni iraniane affinché gli Usa inserissero il Pmoi/Mek nella
lista delle organizzazioni terroristiche. Washington decideva di
compiere un "gesto di buona volontà" nei confronti della nuova
presidenza iraniana di Katami, che si auspicava riformista e moderata.
Nel 2003 l'Ambasciatore americano all'Onu concordava con il collega
iraniano il bombardamento dei campi dell'opposizione iraniana in Iraq
affinché Teheran si astenesse dall'intromettersi negli affari interni
iracheni. Vediamo con quale successo, dato che il governo Maliki si è
sempre mostrato organico a quello iraniano, e che si guarda bene dal
fare alcunché che possa turbare il suo potente vicino, e che nel 2011 ha
rifiutato su "ordine" di Teheran una presenza anche minima di forze
americane nel Paese che però ora invoca insistentemente per le proprie
battaglie contro l'Isis.
Quali sviluppi hanno contraddistinto l'attività e la situazione dei Mojahedin negli ultimi periodi?
I Mojahedin hanno segnato diversi punti a proprio favore. Hanno
ottenuto lo status di "persone protette" dall'Onu; hanno vinto le azioni
giudiziarie da loro intentate in Europa e in America per protestare
contro l'inserimento nella lista delle organizzazioni terroristiche;
alcune centinaia di residenti a Camp Liberty sono stati accolti in Paesi
europei, ma – val la pena dirlo – non ancora in Italia, ed è
un'omissione alla quale il Governo italiano dovrebbe porre rimedio, dal
momento che sono una novantina i dissidenti iraniani di Camp Liberty che
rischiano seriamente la vita e che avrebbero titolo a trasferirsi
subito nel nostro Paese, ma le loro pratiche languono da più di un anno
alla Farnesina e negli altri competenti Ministeri. Ricordiamo che
cinquantadue Mojahedin sono stati orribilmente massacrati il primo
settembre scorso a Camp Ashraf da milizie sciite sotto gli occhi
distratti e conniventi della polizia governativa irachena che doveva
proteggerli. Moltissimi sono stati torturati e uccisi nelle prigioni
iraniane, o assassinati all'estero da sicari teleguidati da chi è facile
immaginare. La stampa italiana non si è neppure "accorta" del massacro
dello scorso settembre ad Ashraf: è come se i grandi temi dei diritti
umani dovessero sempre essere "filtrati" nel nostro Paese – ben
diversamente da quanto avviene nelle altre maggiori democrazie
occidentali – da ingannevoli considerazioni d'interesse commerciale,
come se tacere sui crimini in un Paese avvantaggiasse i nostri
imprenditori su un determinato mercato. Caso mai, è l'esatto contrario.
Una situazione certo non estranea al deludente posto che occupiamo nelle
classifiche internazionali sulla libertà di informazione. Né ci siamo
mossi con sufficiente decisione a livello europeo e bilateralmente con
Teheran. Bisogna invece essere attivi in tutte le sedi internazionali, e
la questione di Camp Liberty deve essere portata con urgenza
all'attenzione del Consiglio per i Diritti Umani a Ginevra e diventare
prioritaria per l'Unione Europea.
Il Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza
Iraniana ha comunicato, in data 19 Maggio, che dieci prigionieri nella
prigione di Gohardasht a Karaj sono stati condannati all’impiccagione. I
detenuti sono stati fatti uscire dalle loro sezioni il giorno prima con
la scusa di dover essere portati in ospedale o in tribunale e sono
stati invece portati in isolamento. Il giorno prima, altri dieci
prigionieri erano stati giustiziati nella prigione di Kerman. Perciò, il
numero delle esecuzioni registrate solo dal 21 Aprile ad oggi è
arrivato a 113. Il Segretariato del Consiglio Nazionale della Resistenza
Iraniana ha dichiarato che l'inerzia della comunità internazionale, in
particolare del Consiglio di Sicurezza dell'Onu, verso le esecuzioni
incessantemente in crescita in Iran, esprimono un record di indifferenza
senza precedenti. Come porre l’attenzione dell’Onu e della Comunità
Europea, oltre che della politica italiana, su questa situazione?
Inoltre, la Resistenza Iraniana chiede a tutti gli organismi
internazionali e alle organizzazioni per i diritti umani di
intraprendere un’azione efficace e urgente per salvare le vite dei molti
prigionieri politici, ora ammalati e in condizioni disperate: come
rispondere in tempi brevi ed efficacemente a queste richieste?
A inizio giugno, dopo dodici anni di continue torture, è stato
impiccato Gholamreza Khosravi. La situazione dei Diritti Umani in Iran è
così drammatica che persino il Segretario Generale delle Nazioni Unite,
sempre molto cauto nell'affrontare criticamente questioni di forte
impatto politico interno per un Paese membro dell'Onu, si è espresso con
durezza. Non vedo allora perché un Paese come l'Italia, impegnato a
tutto campo sul versante umanitario, non possa affrontare questioni come
queste con Teheran in termini perlomeno analoghi a quelli utilizzati da
Ban Ki Moon.
Questi ha constatato nell'ultimo rapporto al Consiglio per i Diritti
Umani che in questo campo le promesse fatte da Rouhani ad inizio
presidenza sono fallite drammaticamente. Settecento persone sono state
giustiziate da quando il nuovo Presidente si è insediato. Un numero di
esecuzioni mai visto prima, a ritmi di almeno cento al mese, che
assicura all'Iran un orribile primato assoluto tra i paesi che ancora
applicano la pena di morte, con riguardo al rapporto tra popolazione
residente e condanne capitali.
Il Segretario Generale dell'Onu si è soffermato anche su altre gravi
violazioni iraniane di norme internazionali che tutelano i Diritti
Umani: amputazioni, torture, fustigazioni, detenzioni arbitrarie,
processi sommari, intimidazioni di attivisti politici, di sindacalisti,
di giornalisti. Dall'atto della sua nomina, tre anni fa, il
Rappresentante Speciale dell'Onu per i Diritti umani ha chiesto
ripetutamente ma senza esito alcuno di visitare il Paese. Da nove anni
nessun esperto dell’Onu si è potuto recare a Teheran per discutere di
sparizioni extragiudiziarie, esecuzioni sommarie, libertà religiosa,
discriminazione contro le donne e le minoranze. Il Parlamento Europeo si
è espresso lo scorso aprile in termini ancora più fermi. Se crediamo
che vi possa essere un futuro pluralista e democratico in Iran, le forze
politiche che si battono per quel futuro devono essere concretamente
tutelate dalla Comunità internazionale. Trattati e Convenzioni sui
Diritti Umani sono stati sottoscritti e ratificati da Teheran, ma
vengono costantemente violati. Esigerne il rispetto costituisce un
aspetto fondamentale per la credibilità dell'Occidente. L'orrore delle
repressioni del 2009 contro l'Onda Verde, le immagini di Neda
assassinata mentre manifestava pacificamente, non devono più ripetersi, e
l'Italia – che ha nel proprio DNA il tema del rispetto dei diritti
umani, dovrebbe smetterla di "tacere" e fare la propria parte.
La problematica legata alla forza nucleare iraniana è spesso
al centro delle notizie di cronaca internazionale. Israele è l’unica
nazione seriamente preoccupata perché è l’unica a sentirsi
esplicitamente minacciata da vicino. L’Mi–6 britannico dichiarò che
l’Iran avrebbe raggiunto il traguardo della sua prima bomba atomica
proprio nel 2014. Dopo il cambio di governo in Iran, qual è la
situazione attuale?
Le Nazioni Unite stanno chiedendo da ben undici anni all'Iran
chiarimenti seri sugli scopi di un programma nucleare così esteso e
differenziato da non avere nessuna giustificazione logica se avesse
esclusivamente – come dichiarato da Teheran – la finalità di produrre
energia o di ricerca. Sino all'elezione di Rouhani, le risoluzioni del
Consiglio di Sicurezza e le ispezioni e decisioni dell'Aiea hanno creato
rallentamenti e ostacoli a quelle parti del programma nucleare che sono
con estrema probabilità orientate a scopi militari. Le sanzioni
petrolifere lanciate quattro anni fa sono state insieme a una seria di
altre misure penalizzanti per l'economia iraniana, e questo è stato il
principale motivo del ritorno di Teheran al tavolo delle trattative e
del "nuovo corso" di Rouhani. L'Iran soffre di inflazione,
disoccupazione, tasso di povertà elevato, calo di investimenti esteri
come non pativa da almeno quindici anni. Ma Teheran ha caparbiamente
proseguito il suo gigantesco programma di arricchimento dell'Uranio, e
da ultimo di fabbricazione del Plutonio - la seconda strada per
realizzare la bomba - che ha avvicinato moltissimo la "soglia" nucleare.
Un paese che miri alla capacità nucleare non deve necessariamente
"avere" la materiale disponibilità di bombe assemblate. Ciò che conta è
la breakout capability, ovvero la quantità disponibile di
uranio arricchito, i sistemi di innesco, i modelli informatici che
possono sostituire i test veri e propri, sempre ammesso che – come
ipotizzato da alcuni osservatori – gli iraniani i test non li facciano
altrove, ad esempio in Corea del Nord, paese legato a doppio filo con
l'Iran nella cooperazione nucleare e missilistica. Se gli iraniani
ottengono dal negoziato "5+1"di mantenere costantemente in funzione
20/30.000 centrifughe di ultima generazione, e di attivare il reattore
di ricerca di Arak, la soglia nucleare è praticamente raggiunta. L'arma
necessiterebbe di poche settimane per essere pronta all'impiego, e non
molto più tempo occorrerebbe per armare missili già esistenti e
sperimentati.
Lei ha certamente fonti d’informazione privilegiate: come stanno procedendo dunque i negoziati?
Al tavolo negoziale, non nascondiamocelo, l'Iran si trova in una
posizione assai vantaggiosa. Anzitutto perché è chiaro a tutti quanto
gli Stati Uniti e gli Europei abbiano "bisogno" politicamente di un
esito negoziale positivo. L'alternativa di un attacco militare –
teoricamente sempre sul tavolo ma evocata ormai sottovoce e raramente –
non è credibile, tanto meno dopo le numerose "linee rosse" superate
senza danni da Assad con l'impiego del proprio arsenale chimico, mentre
la Presidenza Obama ha bisogno di potersi accreditare un successo in
politica estera. In secondo luogo, i "5+1" possono essere tentati di
accettare un'elevata capacità di arricchimento iraniano se il sistema di
verifica venisse rafforzato. Ma l'efficacia delle verifiche dipende da
contingenze del momento, gli ispettori possono ad esempio essere
allontanati in momenti di crisi, mentre le centrifughe sono elementi
strutturali del programma che una volta attivate non vengono meno. Il
terzo vantaggio iraniano è che l'impianto sanzionatorio, da quando sono
state sollevate tante aspettative "di clima" nel negoziato con l'Iran,
ha cominciato a fare acqua da tutte le parti. La pressione degli
interessi economici, soprattutto nell'energia, è davvero enorme. Se il
negoziato dovesse fallire, è realistico pensare che le sanzioni
potrebbero ripartire…? Esse rischiano di apparire come un'arma spuntata
che non impressionerebbe ormai più di tanto l'Iran. I "5+1" saranno
quindi purtroppo flessibili, magari con un altro accordo a termine. Ma
con quale grado di soddisfazione israeliana?
La giornalista statunitense-iraniana Farnaz Fassihi ha scritto sul Wall Street Journal
un articolo che racconta come il governo dell’Iran abbia iniziato da
diversi mesi a reclutare profughi afghani per combattere in Siria a
fianco delle forze del presidente siriano Bashar al Assad. Citando fonti
afghane e occidentali, Fassihi ha scritto che l’ente iraniano
responsabile del reclutamento è la Guardia Rivoluzionaria, una forza
militare istituita dopo la Rivoluzione Islamica del 1979. Ci sono
notizie più precise su questo comunicato?
L'Iran sta assicurando ad Assad, perlomeno dalla seconda metà del
2012, un crescente aiuto militare, economico e politico. Teheran ha
costantemente insistito con Damasco, come sta facendo ora con Baghdad,
per una repressione immediata e durissima di qualsiasi forma di
opposizione e dissenso interno. La verità è che le primavere Arabe hanno
costituito una grande preoccupazione per il regime iraniano, così come
d'altra parte le manifestazioni del 2009 seguite ai brogli per la
rielezione di Amadinehjead. Per gli Ayathollah era e resta un "anatema"
la sola idea di consentire, nei due altri "paesi fratelli" a controllo
sciita, un processo di riforme che possa portare a Governi meno
autoritari e inclusivi di componenti della società non esclusivamente
sciite – in Iraq – o alavate – in Siria. Da due anni la presenza
militare iraniana in Siria, con centinaia di consiglieri e ufficiali
della Irgc – i Pasdaran – e di diverse migliaia di Hezbollah libanesi,
milizie sciite pure addestrate e direttamente sostenute dall'Iran, ha
costituito il principale fattore di insuccesso per la Coalizione
dell'Opposizione iraniana. Che gli iraniani mobilitino ora anche
"manovalanza" afghana, assoldata tra la componente sciita Hazara, non
sorprende quindi affatto. È anzi probabile che il reclutamento promosso
dall'Iran vada ad attingere anche in altri Paesi con forti comunità
sciite. Assad ha così potuto recuperare terreno, rimanere in sella,
senza riuscire però a riprendere il controllo dell'intero Paese.
Infatti, come ampiamente previsto, le titubanze occidentali nel
sostenere nel 2011 e nel 2012 le forze dell'opposizione e l'interesse
dello stesso Assad a radicalizzare all'estremo il conflitto ha purtroppo
dato grande slancio agli islamisti di Al Nousra, di Isis e di altre
formazioni Jihadiste che si sono ora radicate anche nelle regioni
sunnite dell'Iraq. I Baathisti conservano importanti radici culturali e
sociali nelle regioni ora controllate dall'insorgenza, e gli ex
appartenenti alla Guardia Repubblicana di Saddam, gruppi come il
Naqshbandia Order, si sono tatticamente saldati ai Jihadisti. Lo scontro
diretto tra gli sciiti e i sunniti iracheni può ora rappresentare un
"secondo tempo" per Theran nell'affermare in modo decisivo la propria
supremazia regionale dopo il "primo tempo" vinto con l'eliminazione di
Saddam Hussein e – errore colossale dell'Amministrazione Bush,
riconosciuto peraltro dai diretti responsabili – dalla
"debaathificazione" del Paese e del totale smantellamento del
preesistente apparato di sicurezza. Il Primo Ministro iracheno ha
governato in base a un'agenda “settaria” e di totale occupazione dello
Stato da parte della componente sciita. Per i sunniti, Maliki è
semplicemente un agente dell'Iran. Questo è il motivo che ha
forzatamente avvicinato da diverso tempo gli ex ufficiali di Saddam
Hussein e le tribù sunnite dell'Anbar, vessate economicamente e
terrorizzate militarmente da Maliki, ai jihadisti dell'Isis.
Come stanno reagendo gli USA a questa situazione assai fluida
e critica? Quali possono essere le ricadute negative per l'Occidente?
L'Amministrazione americana sembra aver colto il gravissimo rischio
di un intervento militare aereo massiccio sulle regioni sunnite irachene
accettando la tesi di Baghdad e di Teheran sulla necessità di colpire i
terroristi, richieste in realtà motivate solo da necessità di
regolamenti di conti di Teheran sul territorio. Anche in Siria
all'inizio del 2011 la gente manifestava inerme nelle strade, ed era
massacrata dai cecchini del regime, e solo dopo molti mesi di massacri
le rivolte si sono trasformate in estremismo jihadista. Purtroppo il
"modello" siriano è destinato a replicarsi in Iraq, se prima di
qualsiasi altra azione repressiva anti-sunnita non si avvierà un serio
percorso politico, includendo sunniti e curdi nel sistema di Governo.
Speriamo che Washington riesca in questo intento, ma sono seriamente
perplesso, perché su questo aspetto si aprirebbe un ulteriore punto di
attrito con l'Iran, che gli USA non vogliono e non cercano in questo
momento. Il Generale Petraeus, che si intende di counterinsurgency,
avendo guidato con successo quella del 2007/08 in Iraq, ha detto: «Gli
Stati Uniti non possono diventare l'aviazione delle milizie sciite». Se
gli americani dovessero accogliere la richiesta insistente di Maliki
bombardando loro stessi i sunniti senza peraltro un solido accordo
politico con le tribù dell'Anbar e con il mondo ex Baath, temo che si
otterrà il risultato esattamente opposto a quello di prevenire attacchi
jihadisti all'Occidente.
Fonte: http://www.epochtimes.it/index.html
Intervista di Domenico Letizia
Fonte: http://www.epochtimes.it/index.html
Intervista di Domenico Letizia
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