Il pronunciamento della Corte Suprema dello scorso 28 marzo pone
almeno tre punti fermi nella caotica vicenda umana, politica,
diplomatica legale e giudiziaria che riguarda Max Latorre e Salvo
Girone, al loro 24° mese di prigionia in India.
Il primo stabilisce
l’esclusione dal procedimento giudiziario a qualsiasi titolo e con
qualsiasi grado di coinvolgimento della NIA, l’agenzia antiterroristica,
che nulla ha e deve avere a che fare con il caso in oggetto.
Il secondo
è che la pretesa di competenza giurisdizionale rivendicata dal governo
centrale dell’India per condurre indagini ed eventualmente rinviare a
giudizio i due Marò è molto dubbia e quindi tutta da dimostrare. A
questo scopo, la Corte ha rinviato di un mese l’udienza conclusiva,
chiedendo al governo di produrre una memoria per sostenere con fondate
motivazioni giuridiche la sua rivendicazione alla titolarità
dell’inchiesta e del processo. Va da sè, che la Corte ritiene infondata,
salvo prova contraria, la pretesa indiana di competenza giurisdizionale
che secondo le norme del diritto internazionale spetta all’Italia una
volta caduta l’accusa di pirateria, in base alla quale l’India avrebbe
potuto capovolgere questo chiaro orientamento.
Il terzo punto è quello
su cui vogliamo qui concentrare la nostra attenzione e riguarda
l’annullamento delle indagini con le quali prima la polizia del Kerala,
poi la NIA avevano concluso di rinviare a giudizio i due Marò.
Già a gennaio del 2013 la Corte era intervenuta a porre termine
alle scelleratezze con le quali il caso veniva trattato. Manipolazioni,
omissioni gravissime, grossolani depistaggi e violazioni evidenti di
leggi e diritti commessi nel corso delle indagini, convinsero la Corte a
togliere il fascicolo Marò dalle mani dei keralesi per incaricare il
governo centrale di affidare indagini ed istruttoria, da concludere nel
giro di 60 giorni, ad un’agenzia federale. La Corte dispose anche che un
eventuale processo avrebbe dovuto essere svolto in un tribunale
ordinario, da un giudice monocratico, condotto con udienze giornaliere,
da concludersi entro l’estate del 2013 con l’ipotesi di reato di
omicidio colposo. Ma il governo, sotto la spinta dei keralesi
rappresentati da K.A. Antony, il potentissimo ministro della difesa,
l’uomo forte del governo indiano ed effettivo numero uno dello stesso
all’ombra del debole premier Singh, propese per la “linea dura” , per
cui le indicazioni della Corte Suprema furono tutte disattese e le
indagini furono affidate alla NIA, all’antiterrorismo, che riprese
quelle lacunose, irresponsabili e contraffatte eseguite della polizia
del Kerala. Ora la CS ha disposto che quelle indagini siano tolte di
mezzo, cancellate e che si rifacciano da zero, presumibilmente dalla
CBI, la polizia federale indiana.
Delle manipolazioni fatte dagli indiani nel Kerala abbiamo
riferito in tutte le salse e non vogliamo qui ripeterci. Ma torna di
attualità quello che abbiamo tante volte lamentato, cioè che in tutte le
indagini condotte siano stati sistematicamente considerati solo gli
indizi che potevano in qualche modo essere funzionali alla tesi
accusatoria, ed esclusi tutti quelli che avrebbero potuto rivelarsi
delle carte giocabili a favore della difesa. A tale proposito a noi pare
che gli esempi più clamorosi siano due: la discrepanza degli orari,
cioè le cinque ore di differenza tra lo sparo di colpi dalla Lexie e
l’ora dell’uccisione dei due pescatori, un fatto fondamentale di cui
nessuno tra gli inquirenti ha mai accennato o potuto rendere conto.
E
questo chiama un secondo punto fondamentale, l’assenza nelle indagini di
un qualsiasi tentativo di stabilire l’ora del delitto. Persino nelle
fictions televisive ed in tutti i gialli cinematografici o della
letteratura poliziesca il punto di partenza degli investigatori è sempre
lo stesso: l’accertamento dell’ora del delitto, in assenza di una
indicazione della quale chiunque potrebbe essere il potenziale esecutore
di un omicidio. Non s’è mai visto un caso giudiziario in cui non si
cerchi di stabilre l’ora del decesso delle vittime. Dovevamo aspettare
il caso della morte di due pescatori nel Kerala per vederne uno, guarda
caso per non permettere agli indagati di potersi discolpare
semplicemente dimostrando che “all’ora del delitto stavano da tutt’altra
parte e di fronte a decine di testimoni”.
L’ideologo della sinistra “colpevolista a priori” Matteo Miavaldi
ha scritto un libro il cui principale merito è che a chi lo compra on
line gli regalano, oltre ad un mare di menzogne, 12 punti della Carta
Nectar (è vero, mica scherziamo). Lui muove dal fatto che le 5 ore sono
un errore di memoria del comandante del St Antony, Freddy Bosco, che s’è
sbagliato, voleva dire le 16.30, ma ha detto le 21.30, voleva dire che
era giorno, ma s’è confuso ed ha detto che era buio pesto, voleva dire
che la nave era la Enrica Lexie, ma ci ha messo tre giorni a ricordarsi
il nome, dopo aver detto varievolte di non averlo mai sapito. Ecco, il
suo libro si basa su questo, ma tra le sue perle anche “chi lo dice che i
mari attorno all’India sono infestati dai pirati?” Pare evidente che
l’autore non ha mai letto un rapporto dell’IMO (International Maritime
Organization, l’agenzia dell’ONU per la sicurezza in mare) e di tutte le
iniziative internazionali di contrasto alla pirateria. Noi abbiamo
riportato sopra la cartina con l’indicazione degli attacchi di pirati
curata dalla Camera di Commercio Internazionale, ma ne potremmo produrre
decine dell’IMO, della Nato, del MSCHOA. Vi sembra che le losanghine
degli attacchi di pirati in India non ci siano? Si tenga presente che
le losanghine rosa indicano gli attacchi effettivi portati, mentre
quelle gialle i tentativi di attacco sventati.
Senza dire che, nel 2004, 16 paesi asiatici che si affacciano
sull’Oceano Indiano si videro costretti a sottoscrivere la Convenzione
RECAAP (Regional Cooperation Agreement on Combating Piracy and Armed
Robbery against ships in Asia), benedetta e patrocinata dall’ONU per
facilitare la circolazione delle informazioni circa le attività dei
pirati in quelle zone, nella logica raccomandata con enfasi dal Comitato
per la Sicurezza in Mare dell’IMO, fatta propria da 6 risoluzioni ONU e
poi calata nelle legislazioni di molti paesi, che si riassume in queste
conclusioni: “The IMO’s Maritime Safety Committee (MSC) continues to
stress the importance of self-protection as a deterrent to successful
piracy attacks”, cioè che “l’MSC dell’IMO continua a ribadire
l’importanza dell’auto-protezione come un deterrente al successo degli
attacchi di pirateria”. Autoprotezione, impiego di Nuclei di Protezione
Militare, uomini armati a bordo e pronti ad intervenire per difendere
non solo la nave ed il suo carico, ma soprattutto per salvagurdare la
vita, l’incolumità ed il posto di lavoro di quelli che sulle navi ci
lavorano. Questo per rispondere a Miavaldi che si interroga sul cosa ci
facessero i sei Marò sulla Enrica Lexie, perchè dei militari di carriera
si dovessero occupare di “proteggere le cose dei padroni”.
Oppure gli consigliamo di leggersi il preambolo della Risoluzione
della Commissione Permanente Difesa del Senato italiano del 2 ottobre
del 2012 in tema di pirateria, “ai sensi dell’articolo 50, comma 2, del
Regolamento, a conclusione dell’esame dell’affare assegnato sullo stato
di attuazione delle disposizioni di cui all’articolo5 del decreto-legge
n. 107 del 2011, con particolare riferimento all’impiego di nuclei di
protezione a bordo del naviglio civile che transita in acque colpite dal
fenomeno della pirateria”, in cui si descrivono i rischi di attacco per
le 1300 navi di bandiera italiana che transitano annualmente sulle
rotte dell’Indiano, con attacchi che “dal Golfo di Aden si vanno
estendendo verso le coste occidentali dell’India”, quelle che secondo il
Miavaldi sono sicure per la navigazione ed esenti dal rischio pirati.
Ebbene è in quelle acque che si trovò a transitare la Enrica
Lexie quel 15 febbraio di 2 anni fa, dopo aver lasciato il giorno prima
il porto di Singapore diretta verso l’Egitto, su una rotta che sfiorava
la punta meridionale dell’India. Fu là, in pieno giorno che incrociò un
peschereccio che li puntava col ponte che pullulava di uomini armati,
pirati che non si fermarono a nessun avvertimento. La notte dello stesso
giorno, alle 23.30 arrivò nel porticciolo di Neendakara un pescherccio
con i cadaveri di due degli undici uomini del suo equipaggio.
Il
comandante, rilasciò a caldo l’intervista nella quale disse che gli
avevano sparato addosso attorno alle 21.30. Sì, ma di quale giorno? La
domanda si pone perchè c’è una foto della salma di uno dei due pescatori
che ha il braccio destro irrigidito in una posizione innaturale, un
irrigidimento tipico del rigor mortis. Questa foto è stata usata nella
relazione del perito internazionale Luigi Di Stefano “per l’integrazione
dell’atto 051695 depositato il 13 marzo del 2013 presso la procura di
Roma, dal titolo :”Enrica Lexie, analisi delle posizioni”, che tra
l’altro stabilisce che il St Antony era una barca irregolare non essendo
iscritta in nessun registro nautico nazionale dell’India in palese
violazione dell’atto indiano di navigazione, che si trovava in acque
definite HRA (High Risk Area), che navigava in modo anonimo e sospetto
senza esibire alcuna bandiera (fonte: sentenza 20370/12 della Corte
Suprema dell’India del 18 gennaio del 2013). In una intervista
rilasciata al Deccan Chronicle il 28 aprile del 2012 così il comandante
del St Antony Bosco descrive il momento del suo incidente :” …ci siamo
pericolosamente e velocemente avvicinati ad una grossa nave, ma il
nostro timoniere non era in grado di comprendere le segnalazioni che ci
lanciavano, non solo perchè fosse privo di patente nautica ed ignorante
delle regole di navigazione, quanto perchè s’era addormentato al
timone…”.
Dopo l’incidente che ha causato la morte dei due pescatori, il
Bosco non avverte la Capitaneria sul canale radio d’emergenza, nè
telefona alla polizia, ma chiama un suo amico, tale Prabhu, un suo
paesano di Kayamkulam, pregandolo di avvisare lui la polizia. Un
atteggiamento a dir poco sospetto o comunque poco in linea con la
drammaticità del momento. Si vede che il Bosco aveva molte cosucce che
era molto meglio non fars sapere in giro. Quando gli hanno proposto di
mettere in mezzo la Lexie e di incastrare i Marò deve aver toccato il
cielo con un dito.
Ritornando al cadavere dal braccio alzato, è noto che il rigor
mortis comincia a manifestarsi ad 1-2 ore dal decesso, raggiunge il suo
massimo entro le 10-12 ore, si conserva sino a 24-36 ore, dopo di che i
muscoli tornano a rilassarsi. E’ un vero peccato, diciamo così, che la
notte del 15 febbraio 2012 nessun medico legale abbia eseguito la
ricognizione dei cadaveri prima che il mattino dopo il prof Sasikala
effettuasse la perizia necroscopica. Questi, sulla base del rigor
mortis, avrebbe solo potuto determinare che la morte era intervenuta tra
le 12 e le 36 ore prima, ma nessun altro rilievo fu eseguito e tutti
presero per buona la testimonianza di Freddy Bosco secondo la quale la
morte era fissata alle “21.30″, ora che poi fu aggiornata alle 16.30 per
far “quadrare i conti”.
Ma le 21.30 di quale giorno? Se la morte si
fosse verificata due ore prima del rientro in porto forse quel braccio
non si sarebbe ancora irrigidito, per cui sembra più plausibile che si
sia trattato delle 21.30 del 14 febbraio, il giorno prima.
Oltre che dalla logica, questa ipotesi è sostenuta da un dato di
fatto incontrovertibile sfuggito all’attenzione degli osservatori anche
più attenti. Nella stiva del St. Antony c’era un ricco bottino di pesca,
più di tremila prede tra tonnetti, grossi maccarelli e piccoli squali.
Ora i tonni nella acque del Kerala sono introvabili, perchè tendono a
raccogliersi in grossi banchi sulla costa orientale dell’India, quella
che va dal Tamil Nadu verso nord, verso il golfo del Bengala. Ad occhio e
croce, per raggiungere quei banchi di tonno che distano dal Kerala
almeno 250-300 miglia, occorrono mediamente tra le 25 e le 32 ore di
navigazione, avventurandosi nello stretto di Palk dove le motovedette
dello Sri Lanka sorvegliano sul divieto di pesca dei pescatori indiani,
sparando a vista sui trasgressori. Appare quindi verosimile che il St
Antony si sia spinto sino in quelle acque e che poi sia stato
intercettato sulla via del ritorno, dandosi alla fuga nel timore che
fossero sequestrati barca e carico.
A quel punto le Arrows Boats possono
aver sparato addosso ai fuggitivi, uccidendo il timoniere ed un altro
pescatore. Questo combacia con le perizie balistiche che in una prima
lettura davano proiettili di calibro 7.62, quelli utilizzati dalla
marina dello Sri Lanka sulle mitragliette PKM, che poi si è tentato di
trasformare in proiettili 5.56 in dotazione ai nostri militari. Ecco
allora che i due pescatori possono essere stati uccisi alle 21.30 del 14
febbraio ed essere rientrati a Neendakara 26 ore dopo con il loro
carico di morte.
Nello scenario appena tracciato, tutte le tessere del mosaico
combaciano: i proiettili, compatibili con quelli della marina cingalese,
il già raggiunto rigor mortis per le due povere vittime, la cattura dei
molti tonni altrimenti impossibile nel Kerala, le testimonianze rese a
caldo, il fatto che il St Antony sia completamente diverso dal natante
descritto nel rapporto sull’incidente stilato dai Marò. Quello che resta
da stabilire, ed è a questo che dovranno puntare le nuove indagini, è
se l’incidente del St Antony si sia verificato 5 ore dopo quello della
Lexie, o 19 ore prima di quello. Nel primo caso i Marò sono innocenti,
nel secondo, mentre ammazzavano i due pescatori del St Antony loro
stavano ancora dalle parti di Singapore. Per cui gli indiani farebbeno
bene a darsi una regolata e ad allargare il raggio delle loro indagini
sinora condotte a senso unico e su un’unica pista. Ne dovrebbero avere
abbastanza del ridicolo di cui si sono coperti con questa storia e delle
censure che gli sono piovute addosso da tutte le parti che contano
nella comunità internazionale.
Fonte: http://www.qelsi.it/wp-content/themes/qmag/images/logo2.png
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