Continua oggi la serie di post dedicati ai nostri Marò vittime
di una profonda ingiustizia e la cui condizione sembra essere ormai
divenuta un fatto “normale” per l’opinione pubblica nazionale.
GeopoliticalCenter, grazie agli interventi di importanti firme, cercherà
di riportare al centro dell’attenzione dei media la questione dei
nostri due militari per i quali chiediamo giustizia, la giustizia del
Diritto Internazionale che l’India e l’impotenza delle relazioni
internazionali italiane gli negano. Oggi un articolo del Gen. Leonardo
Tricarico
Nella vicenda dei marò vanno innanzitutto chiariti i fatti non solo
per il puro desiderio di raccontare “le cose così come sono andate” caro
agli storici ma soprattutto per trarne tutti i possibili insegnamenti
ed evitare così di ripetere gli errori. Da parte politica si è
rivendicato ad ogni pie’ sospinto la collegialità delle decisioni
adottate via via, citando vagamente i consessi e le forme della
concertazione. Se qualcosa è davvero mancato, è stata però la
collegialità delle decisioni.
Nessuno ha mai pensato di utilizzare gli
organismi interministeriali che esistono da tempo e sono oggi normati
dal Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM) 5 maggio
2010, “Organizzazione nazionale per la gestione di crisi” e che
avrebbero dovuto costituire la via maestra. Questo “hardware” comprende
due tavoli di concertazione, l’uno tecnico (conosciuto
giornalisticamente come Unità di Crisi, ma più precisamente NISP, Nucleo
Interministeriale Situazione e Pianificazione) e l’altro di livello
prettamente politico (il CoPS, Comitato Politico Strategico).
La norma
prevede che il CoPS sia presieduto dal Presidente del Consiglio e che vi
siedano ministri, sottosegretari, capi dipartimento ed alti funzionari
titolati a gestire le situazioni emergenziali. In compenso il Presidente
Monti ha affermato in un’intervista televisiva che la decisione del
rientro fu presa, per motivi tutti da verificare, nella riunione del
Comitato Interministeriale per la Sicurezza della Repubblica (CISR),
organo più di “intelligence” che di gestione delle crisi.
Se qualcuno
nutrisse dubbi – come può capitare in un Paese in cui la conoscenza e il
rispetto delle leggi sembrano un optional – sulla prevalenza del DPCM 5
maggio 2010, il decreto stesso definisce all’art. 2 una fattispecie di
“crisi internazionale” che calza alla perfezione il caso dei marò:
“eventi che turbano le relazioni tra Stati o, comunque, suscettibili di
mettere in pericolo il mantenimento della pace e della sicurezza
internazionale e che possono coinvolgere o mettere a rischio gli
interessi nazionali”.
Ebbene, risulta per certo che nella crisi dei Marò
nessuno dei due tavoli, ne’ quello tecnico ne’ quello politico, sia mai
stato attivato e questo nella grave ed incomprensibile inosservanza da
parte della Presidenza di una norma emanata dalla stessa Presidenza. Non
è superfluo ricordare che lo stesso tavolo di crisi gestì il Millennium
Bug e il post 11 settembre, autoconvocandosi sempre ad horas. Di norma
lo stesso tavolo effettua, simulando il Vertice di Governo, le
periodiche esercitazioni Nato ed europee che non infrequentemente
disegnano scenari simili a quello che hanno riguardato i marò. Ma forse
anche questo non è noto ai protagonisti di vertice di questa vicenda.
È anche utile avanzare, più che un sospetto, la ragionevole convinzione che siano gli stessi Ministri (o, comunque, le strutture ministeriali centrali e periferiche) a non voler fare funzionare i tavoli di coordinamento interministeriale istituiti, nella perniciosa convinzione che coordinare sottrarrebbe loro autonomia o esporrebbe il loro operato a un vaglio sgradito. In passato più di un componente di quello che oggi si chiama NISP ammise, a microfoni spenti, di aver avuto dal proprio dicastero istruzioni a non essere troppo zelanti e collaborativi nelle iniziative collegiali di Palazzo Chigi. Nulla autorizza a credere che oggi le cose siano cambiate, anzi questa crisi conferma un peggioramento del quadro complessivo.
Il fatto che l’operatore dominante sia la Farnesina rafforza la convinzione dell’insofferenza verso il giogo interministeriale. Nessuno come i diplomatici è da sempre recalcitrante a che alcuno si intrometta in questioni che occorrano fuori dei confini nazionali.
L’unico caso che si ricordi in questo secolo fu quando Guido Bertolaso, con il suo caratteraccio, riuscì a ottenere la titolarietà della gestione dei fondi nei paesi colpiti dallo Tsunami del 2004, dopo un lungo braccio di ferro con l’allora Ministro Fini, spalleggiato dalle feluche di turno. Nel caso marò anche il Presidente del Consiglio è parso un po’ distratto rispetto alla perentorietà del Decreto per la gestione delle crisi, forse perché non è riuscito a spogliarsi del personaggio di risanatore dell’economia per rivestire a pieno titolo quello di capo del governo. Il suo comportamento pare richiamare quello del tenace detentore della delega per la gestione dei Servizi; allora parve che fosse stata la tragica fine dell’ostaggio Lamolinara in Nigeria l’8 marzo 2012 durante un blitz unilaterale inglese a convincerlo a nominare finalmente un Sottosegretario con delega per gli organismi di Sicurezza.
Oggi vi è da sperare che questa circostanza non
colta da lui serva da monito per che gli è succeduto per dare
finalmente concretezza alle attività di coordinamento interministeriale,
che per queste materie non possono e non debbono avere l’unica sterile
ed inadeguata espressione nel plenum del Consiglio dei Ministri. Prima
riflessione parziale quindi: il Presidente del Consiglio di turno deve
gestire gli eventi critici che comportano la competenza di più
istituzioni in maniera coordinata, esercitando finalmente la potestà di
coordinamento che la legge stessa assegna a lui (e solo a lui). Con più
lungimiranza sarebbe auspicabile un coordinamento interministeriale
permanente per la salvaguardia dell’interesse statuale permanente al
centro dell’azione quotidiana, senza attendere la crisi. Negli USA, ad
esempio, sin dal 1947 esiste il National Security Council.
Come si vede
queste sono considerazioni tecniche, che prescindono dal colore del
Governo di turno ma che dovrebbero far parte del bagaglio professionale
delle strutture permanenti di gestione del Paese. Nel caso marò bisogna
invece osservare come a mancare non sia stato il disegno politico di un
Governo politico – titolato a fare scelte anche sbagliate, ma in qualche
modo poggianti sul consenso popolare – quanto proprio la capacità
tecnica di quelli che sulla carta erano ciò che di meglio le istituzioni
potevano prestare alla politica.
In altre parole, nessuno meglio di un diplomatico all’apice di una brillante carriera avrebbe potuto e dovuto valutare le conseguenze di un aspro confronto con un grande Paese come l’India, così come nessuno meglio dell’Ammiraglio Di Paola, unica persona nella storia delle Forze Armate italiane ad aver ricoperto tutti gli incarichi di vertice nazionali ed internazionali, avrebbe potuto e dovuto cogliere il senso delle vicende operando le scelte meno dannose per l’interesse nazionale e nel contempo più efficaci per tutelare i diritti dei due militari con la sua stessa uniforme. Senza contare il Ministro della Giustizia, un comprimario non da poco il cui ruolo – dato il contesto ed i riferimenti giuridici cui ambedue le parti fanno appello – non può sfuggire. Ma forse questa, paradossalmente, è la seconda riflessione parziale da trarre. I militari, i diplomatici, i magistrati, i professori, proprio perché padroni del sapere specifico consolidato in lunghi anni ne restano poi prigionieri nei momenti della decisioni importanti.
L’etica dei loro comportamenti, divenuta negli anni pratica di vita, finisce per costituire ostacolo insormontabile per una politica più attenta a tutti gli interessi in campo. Infine, uno sguardo ad alcuni passaggi critici non sufficientemente chiari della vicenda. Dando per scontata l’indipendenza della magistratura indiana nell’effettuare le proprie indagini, non si capisce come mai l’Italia non sia stata ammessa a partecipare a una commissione di indagine governativa che potesse ricostruire meglio di chiunque altro l’accaduto. Giova ricordare, ed altrettanto andava fatto con le autorità indiane, che questa non sarebbe stata un’invenzione mirabolante ma solo l’applicazione di una consuetudine universalmente accettata da tutte le democrazie: quando occorre un incidente che veda coinvolti più Paesi, le indagini vanno condotte da una commissione mista. La Nato ha fatto di questo concetto una norma in un apposito accordo permanente (in gergo, Stanag).
Gli esempi sono tanti. A Ramstein, a seguito della tragedia causata
dalle Frecce Tricolori nel 1998, indagò una Commissione trinazionale
composta dalla Germania (ove era capitato l’evento), dagli USA (titolari
della base) e dall’Italia (titolare della Pattuglia). Per la tragedia
del Cermis furono create due commissioni governative distinte, che però
poi operarono insieme, giungendo a conclusioni non del tutto condivise
ma scaturite da un aperto e tenace confronto. Quando Nicola Calipari fu
ucciso in Iraq a un posto di blocco statunitense, l’ambasciatore
statunitense a Roma Mel Sembler, in un incontro a Palazzo Chigi con
Gianni Letta e Berlusconi, dovette cedere alle richieste manifestate dal
nostro governo di inserire un membro italiano nella Commissione di
inchiesta. Fu scelto l’ambasciatore Ragaglini, oggi capo missione a
Mosca che andò a integrare la Commissione USA e consentì all’Italia una
totale visibilità sulle indagini in corso.
Latorre e Girone non sono né eroi, né assassini. I due militari incorsi in un inconveniente connesso alla loro professione solo gli unici due protagonisti che in questa penosa vicenda hanno tenuto un atteggiamento di compostezza, dignità e lealtà che può essere ammirato in tutto il mondo e ci rende orgogliosi di essere italiani.
Se il nostro Paese
avesse più memoria e fosse più attento al mondo della Difesa, si
accorgerebbe che quello che accade oggi ai due marò è un film già visto
più volte, con diverse sceneggiature ma appartenente allo stesso genere.
Alla fine del conflitto nei Balcani il Generale Arpino e l’Amm.
Guarnieri, rispettivamente Capo di Stato Maggiore della Difesa e della
Marina, furono processati per la bombe sganciate in Adriatico dai
velivoli Nato impegnati nelle operazioni belliche. I due furono
trascinati in giudizio solo per aver compiuto il loro dovere; tra
l’altro al gen. Arpino non fu neanche accordata l’assistenza
dell’Avvocatura di Stato. La vicenda giudiziaria durò tre anni e si
concluse con l’assoluzione dei due ufficiali imputati di “tentata strage
colposa aggravata”. Arpino, in un colloquio telefonico con il suo amico
Generale Wesley Clark, che quelle operazioni aveva diretto da
Bruxelles, seppe riderci sopra: “Per lo stesso fatto, ossia il ruolo che
tu ed io abbiamo ricoperto nelle operazioni per liberare i Balcani da
Milosevic, tu sei candidato alla Presidenza degli Stati Uniti mentre io
rischio di finire in prigione”.
Ma la battuta non può risolvere un
problema che continua a incombere sui servitori dello Stato come la
proverbiale spada di Damocle.
Ed ancora, nel marzo 2000, il Ten. Col.
Maurizio De Rinaldis, allora comandante delle Frecce Tricolori, a
seguito del sorvolo di Napoli per una cerimonia ufficiale, fu
incriminato dal procuratore di turno per i reati di “inosservanza delle
istruzioni ricevute” asserendo che il sorvolo della pattuglia a bassa
quota aveva creato “pubblico scandalo”. Anche De Rinaldis dovette
difendersi solo per aver ottemperato a un ordine di volo; il
proscioglimento giunse dopo circa un anno.
Certamente frugando nel vissuto di altri comparti dello Stato si può
immaginare una casistica voluminosa di incidenti di percorso subiti da
servitori dello Stato incolpevoli. È il prezzo da pagare ai nuovi
scenari, alle situazioni inedite per un soldato, i cui comportamenti non
sono sempre rubricabili a fronte di norme certe, di quadri giuridici
consolidati o a prova di magistrati – e questo pare una esclusività
italiana – non sempre sereni o equilibrati. Ma è altrettanto certo che
molti problemi nascono da un’ambiguità tipicamente italiana, nella quale
le leggi che sanciscono i princìpi sono raramente seguite dai
regolamenti che ne fissano i meccanismi operativi.
Nel caso marò, ad
esempio, neppure l’arrivo di un militare alla guida della Difesa è
bastato a trarre il regolamento sulla tutela delle navi mercantili dalle
secche nelle quali si era incagliato sotto il precedente titolare
politico del dicastero. Si tratta, come già detto, di un difetto di
struttura che non si può sperare di risolvere solo attraverso la
presenza di singole persone più o meno zelanti.
L’ultima considerazione
da fare è prettamente politica. C’è chi ha strumentalizzato la vicenda
Marò per chiedere il disimpegno italiano da tutte le missioni
internazionali.
Nulla di sbagliato, a meno di voler vanificare gli sforzi fatti negli ultimi vent’anni, con risultati operativi che ci vengono universalmente riconosciuti. Né si può trascurare l’importanza del rinnovamento culturale all’interno delle stesse Forze Armate per il passaggio da una mentalità da “Fortezza Bastiani” a quella della continua verifica sul campo di capacità, equipaggiamenti, dottrina e così via. È tuttavia altrettanto che, a fronte della generosità con la quale i governi italiani rispondono sempre a ogni richiesta proveniente dalla comunità internazionale, non si è avuto sinora un adeguato riconoscimento politico nelle sedi internazionali.
L’insensibilità di singoli Paesi o
di organizzazioni multinazionali nei nostri confronti continua
immutata. Basti qui ricordare come nel 2011, in occasione della
campagna di Libia, resa possibile in larghissima misura dalla
concessione delle basi italiane nonostante gli evidenti impatti interni,
l’Unione Europea si disinteressò del problema dei profughi in fuga (o
lanciati?) verso l’Europa, addossando all’Italia non solo l’onere
umanitario ma anche il rischio che tra le decine di migliaia di
poveracci si nascondesse qualche terrorista pronto a farci pagare il
conto dell’ospitalità data ai nostri alleati.
Ricordare e far valere – senza ricatti, ma anche senza unilaterale generosità – il contributo che l’Italia ha sempre dato alla sicurezza collettiva, come previsto dall’art. 11 della Costituzione.
Bisogna saper distinguere tra la protezione di interessi diretti, come la protezioni dei nostri mercantili, dalla partecipazione a missioni multinazionali per la difesa o il ristabilimento della pace, con ricadute solo indirette sull’Italia. Il fatto che i nostri militari tengano alta la bandiera d’Italia come pochi altri in questo momento fanno non può nascondere il fatto che gli scarsi ritorni politici sinora ottenuti dalla partecipazione capillare a tutte le missioni devono essere oggetto di riflessione quando i buoi – per così dire – sono ancora nella stalla, senza alterazioni emotive o ideologiche nell’uno o nell’altro senso. Tutto questo ovviamente nulla toglie al dovere perentorio di non recedere di un solo millimetro dall’impegno di sostenere in ogni foro il buon diritto dei nostri soldati.
Fonte: http://www.geopoliticalcenter.com/
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